Fiscal cliff, la vendetta

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Quello che del Tea Party è stato forse poco percepito in Europa è che si è trattato di una reazione alla crollo economico del 2008.  È vero che i suoi motivi ideologici sono profondamente radicati nella storia americana. Ma non si deve considerare il suo esordio nella primavera del 2009 come casuale. La conferenza stampa del Presidente Bush nel settembre 2008, subito dopo il fallimento Lehman Brothers, insieme al Presidente della Federal Reserve Bernanke e al Ministro del Tesoro Paulson, è stato un evento di cui non si ricordano precedenti. Difficile sottovalutare la drammaticità  del messaggio: la catastrofe economica incombe. A confermarlo c’era la processione degli occupati nella finanza con i loro scatoloni, la cui vita finiva in un attimo col licenziamento.
Ma ancora più cruciale fu il crollo dei valori di Borsa, caduti dall’aprile 2008 al febbraio 2009 di più del cinquanta per cento, contro solo circa il dieci per cento dopo dieci mesi dall’ottobre del 1929; uno shock concentrato. Europei ed economisti pensano solo al 2009 come l’anno della recessione. Ma è tra la prima metà  del 2008 e l’inizio del 2009 che si infrange il sogno del grande arricchimento continuo promesso dalla svolta antistatalista attuata nel nome di Reagan. La cui filosofia elementare era: lasciateci fare, meno lo Stato si impiccia, tutto andrà  per il meglio. Svolta che l’amministrazione Clinton non aveva intaccato, ma di cui aveva anzi confermato la validità  con l’azzeramento del deficit del bilancio dello Stato.
Pensiamo ora a quell’America profonda che, nel pieno della caduta dei valori mobi-liari, e quindi dei Valori Americani, oltre all’indigeribilità  del primo presidente nero, vede che la risposta federale alla crisi è l’aumento della spesa, del deficit e del debito pubblici. Tutto ciò che la Nuova Religione reaganiana aveva additato come il male assoluto. Cosa poteva pensare quell’America profonda? Che quelle misure erano un palliativo che non poteva che aggravare la crisi e allontanare la ripresa del sogno. Che quella sopravvivenza di Stato che era stata tollerata fin dai tempi di Reagan aveva portato a un frutto avvelenato: la crisi del 2008; e che il solo rimedio sarebbe stato la sua estirpazione.
Nel 1929 i nuovi ricchi americani erano più innocenti e si buttavano dai grattacieli, come racconta la retorica della Grande Depressione. Adesso sono incarogniti e vogliono la vendetta contro chi pensano gli abbia tolto il sogno, e i soldi: lo Stato. Questo, più che la lunga storia di quei valori americani profondi, spiega la virulenza del movimento. Che ha molto in comune con il maccartismo dei primi Cinquanta. Come allora, una folla di politicanti si è associata, a caccia di voti, aumentando il momento politico del movimento. La sua crescita impetuosa non poteva non suggerire il bersaglio grosso: la Presidenza. I movimenti, negli Usa, catturano il momento ideologico e emozionale emergente molto più rapidamente dei partiti europei, più strutturati. Ma, al tempo stesso, mancano della forza conservativa che quei partiti hanno, purtroppo, anche di fronte a dure smentite politiche. Una cosa pare emergere dalla sconfitta di Romney: che il Tea Party, potente aggregatore di consensi, è diventato anche un potente repulsore. La scommessa di capitalizzare sul Tea Party, senza perdere verso altri settori, è stata perdente nonostante le condizioni paressero ottimali. L’uscita dalla crisi era stata debole. La politica di Obama era stata frenata da tabù, come l’avversione a deficit e debito pubblici, condivisi anche nel suo entourage. Lui stesso pareva aver perso il tocco magico del discorso mobilitante.
Una disgregazione dello schieramento che ha fallito l’attacco finale è molto probabile, data anche la debole strutturazione dei partiti americani. Qui si apre un’opportunità  di ridurre la presa ideologica del liberismo anarcoide estremo impersonato dal Tea Party. Negli stati industriali del Nord Mid-West è successo per esperienza diretta. Il difficile è farlo capire a settori più ampi. Solo la prova provata del consolidamento della ripresa può indebolirne la presa su elettori meno ideologizzati. Il presidente Obama deve assolutamente evitare il ‘precipizio fiscale’, cioè quella massa di tagli già  contrattati con i repubblicani che taglierebbero inevitabilmente le gambe a una ripresa ancora debole. Se vuole farsi ricordare per aver portato gli Usa fuori dalla crisi è necessario che il presidente smetta di ascoltare le colombe clintoniane. Questa è l’ultima trappola repubblicana.


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