Il cuore democratico dei latinos

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MIAMI — «Forse domani». «Magari domani». I cubani della Florida si salutano dai tavoli del loro ristorante con un sorriso complice e lugubre. Auspicano la morte di Fidel Castro, che attendono da 54 anni. E si consolano così per la sconfitta della scorsa notte. Si sentono all’opposizione. Esuli per una seconda volta: l’unico scoglio repubblicano in un mare latino, che ha votato democratico. Ed è stato decisivo per la rielezione del presidente, qui e altrove. Nonostante lo spot di Romney con Chà¡vez e Mariela Castro, la figlia di Raàºl, che si dicevano entusiasti di Obama.
Sono giovani, sono molti, e fanno molti figli. Arrivano dal mondo che va dal Rio Grande alla Terra del Fuoco, dal Perù ai Caraibi. Il loro voto è compatto (al 69% per i democratici) ma non ideologico. Di Castro non gli importa nulla, tanto meno di Chà¡vez. Per Obama non hanno la bruciante passione dei neri né il latente senso di colpa di molti bianchi. Ma comunque lo sentono come uno di loro: un figlio di immigrati, che di conseguenza pratica una politica dell’immigrazione aperta e conciliante; uno che ha vissuto in mezzo ai poveri, anche se ora a Chicago Obama frequenta il ristorante italiano «Spiaggia» dove ordina capesante ai porcini da 50 dollari, e da anni non si fa vedere al fast food «Mac Arthur’s» dove mangiava pescegatto fritto. Nel partito democratico gli ispanici non contano ancora molto, al di là  di figure simboliche come Julian Castro, sindaco di San Antonio, cui fu affidata l’apertura della Convention 2012, ruolo che nel 2004 era stato di Obama. Ma i repubblicani appaiono ai «latinos» un’accolita di estranei, il volto della vecchia America che vuole militarizzare le frontiere, il simbolo di una classe benestante ma declinante di maschi, anglosassoni, protestanti e soprattutto adulti, per non dire anziani.
Si spiega così, in un panorama politico abbastanza costante da decenni, il voltafaccia degli Stati del Sud-Ovest. Al New Mexico, che aveva già  votato per Kerry nel 2004, si sono aggiunti il Colorado e il Nevada, nonostante (o forse a causa di) tassi di disoccupazione che arrivano al 14%, il doppio della media nazionale. I latinos hanno gonfiato il voto per Obama in Stati sicuri, come la California. Hanno influito anche in Stati lontani dalla frontiera, come l’Iowa. E sono stati cruciali in quello che ormai considerano il loro Stato, il lembo di Nord America più vicino al Sud, la Florida.
Non amando l’understatement, i cubani di Miami hanno chiamato il ristorante Versailles, come la reggia del Re Sole. Il piatto simbolo è «moros y christianos», che sarebbero poi riso bianco e fagioli neri, serviti in due piatti separati. Una buona metafora della Florida. Qui i bianchi — ad eccezione della forte comunità  ebraica — votano repubblicano, proprio come negli altri Stati del Sud. Ma a Miami i bianchi sono ormai minoranza: non a caso nella contea Obama ha vinto con il 61%. A un tavolo d’angolo ci sono i fratelli Mario e Lincoln Diaz-Balart, gli uomini forti del partito repubblicano. Due energumeni che ai comizi afferrano il microfono e maledicono con la stessa indignazione il socialismo, il comunismo, Obama, la riforma sanitaria e le tasse. Lincoln ha rappresentato a lungo la comunità  al Congresso, prima di cedere il posto al fratello, rieletto con il 77% nel collegio 25. Parlano con disprezzo di quello che considerano un traditore, Joe Garcia, che nel collegio 26 con il voto di ecuadoregni e portoricani ha battuto l’altro cubano David Rivera. Ma il vero astro nascente tra i repubblicani è il senatore Marco Rubio, 41 anni: figlio di un barman e di una donna delle pulizie, piccolo, stempiato, tendente alla pinguedine, ma oratore formidabile e perfettamente bilingue. Invece Jeb Bush, che qui è stato governatore dal 1999 al 2007 e non fu estraneo alla contestata vittoria del fratello, non va molto oltre «ola» e «adios» pur avendo sposato una messicana, Colomba Garnica Gallo, la cui biografia si intitola non a caso «Cenerentola alla Casa Bianca», sottotitolo: «È troppo tardi papà », espressione con cui Jeb annunciò a George Bush senior che sarebbe diventato nonno di un piccolo latino (chiamato George pure lui).
I cubani di Miami sono gli ultimi hidalgos. Sui muri scrivono versi di José Martà­, il poeta nazionale: «La patria è agonia e dovere». Dipingono murales in cui caudillos e libertadores sudamericani vanno sottobraccio a Cristoforo Colombo e a Reagan. L’unica foto del Che esposta sull’Ottava Strada, che tutti chiamano Calle Ocho, è quella che lo raffigura sul tavolo dell’obitorio. In questi giorni però può accadere di trovare spenta la fiamma in teoria eterna che commemora i caduti della Baia dei Porci, e chiuso il parco dove da decenni giocatori sempre più vecchi si sfidano a domino sotto le palme, che Martà­ definiva «innamorate in attesa».
Nel 2008 Obama aveva fatto breccia nella comunità . Famiglie si erano divise, le nuove generazioni rifiutavano le fedeltà  dei padri. Ora invece, come spiega Eduardo Gamarra, direttore dell’istituto di studi latinoamericani all’Università  della Florida, «sta crescendo una generazione di cubani all’apparenza più repubblicana della precedente». Sono gli «Yuca», young cuban americans, versione latina degli Yuppies, che si tengono lontani dalle malinconie di Little Havana e si ritrovano davanti a bicchieroni di mojito da mezzo litro a Coconut Grove, dove un tempo c’erano gli hippy e ora ci sono i sushi bar.
Se i vecchi castristi rimasti sull’isola chiamano gli esuli «gusanos», vermi, neppure gli altri ispanici li amano. L’unica cosa che accomuna le varie comunità  è l’appuntamento in tv con il varietà  del sabato sera, «Sabado Gigante», condotto da Don Francisco, che il mese scorso ha migliorato il suo stesso record di longevità  televisiva: 50 anni di trasmissione, sempre la stessa. Per il resto, gli haitiani sfuggiti all’illuminato governo di Papà  e Baby Doc Duvalier e i salvadoregni scampati agli squadroni della morte non capiscono perché devono sudarsi per decenni una cittadinanza che ai cubani spetta appena sbarcati. Così quasi per sfida gli studenti del «Miami Dade Community College» hanno eretto un’altra fiamma eterna, un’opera d’arte contemporanea in plastica rossa, per celebrare «libertad y progreso».
Ci sono i latinos dietro il boom demografico americano. L’area metropolitana di Miami è raddoppiata negli ultimi dieci anni, ora supera i 5 milioni di abitanti. Ma è solo la punta di un fenomeno che riguarda tutti gli Stati Uniti. Bastava osservare i volti nelle code infinite davanti ai seggi, nel freddo polare del Wisconsin e sotto il sole estivo dell’Arizona. In California i messicani hanno inscenato cortei di festeggiamento. A New York si sono ritrovati nelle locande dei Queens, sotto una bufera di neve, o hanno fraternizzato nelle file per la benzina, che si allungano ininterrotte fin dal passaggio dell’uragano Sandy. Scene che viste all’ombra delle palme, a 27 gradi, fanno sorridere i loro fratelli della Florida, i pensionati ricchi, i cubani che gestiscono il business più fiorente — i funerali —, i colombiani che lavorano nei cantieri abusivi a sei dollari l’ora, Don Francisco che si chiama in realtà  Mario Kreutzberger, figlio di Erik Kreutzberger fuggito dalla Germania dopo la notte dei cristalli, gli esuli in attesa che, morto Castro, la vita sia solo vita e non più esilio, e le mani ignote che nottetempo hanno ravvivato la fiamma eterna ai caduti.
Aldo Cazzullo


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