Signor Netanyahu risponda ai palestinesi

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Allora perché lei aspetta, signor Netanyahu? È vero, Abbas non ha pronunciato le precise parole “rinuncia al diritto del ritorno” e in un’intervista in arabo si è affrettato a prendere le distanze dalle proprie dichiarazioni sostenendo che questa è solo la sua opinione personale e nessuno è autorizzato a rinunciare al “diritto del ritorno”. Conosciamo questa danza palestinese: un passo avanti, in inglese, e due indietro, in arabo.
Eppure nelle parole di Mahmoud Abbas c’è qualcosa di nuovo, un segnale. Nella nota cacofonia di urla e accuse che le due parti – inevitabilmente sorde l’una all’altra – si scambiano c’è un suono nuovo. Una nota che richiede un’attenzione diversa e una reazione più complessa e creativa.
E lei, signor Netanyahu, non reagisce.
La cosa è un po’ imbarazzante eppure le ricordo, signor Netanyahu, che lei è stato eletto per governare Israele, per riconoscere rari segnali di opportunità  come questi e sfruttarli per far uscire il Paese dal vicolo cieco in cui è bloccato da decenni.

Lei di certo capirà , signor primo ministro, cosa significa per un leader palestinese pronunciare apertamente quelle esitanti parole. Di certo può immaginare – al di là  del muro di sospetto e di ostilità  che esiste fra voi – cosa significa per l’uomo Mahmoud Abbas, nato a Safad (dove per tutta la sua esistenza ha sognato di tornare a vivere), dichiarare che rinuncia a questo sogno. Lei, ovviamente, può liquidare le parole del presidente Abbas definendole un tentativo di manipolazione. Tuttavia, in quanto leader soggetto a pressioni da parte di estremisti e fanatici, può anche apprezzare in cuor suo il coraggio che gli è stato necessario per pronunciare ad alta voce queste parole, ben sapendo quanto potrebbero costargli.
Ma lei, signor Netanyahu, non ha quasi reagito. Nel vuoto di questa reazione si è introdotto il suo ministro degli Esteri che, con la delicatezza che lo contraddistingue, ha attaccato il presidente Abbas e ridotto in polvere le sue dichiarazioni.
No, mi scusi. Lei in effetti ha reagito con una dichiarazione breve, quasi casuale, all’inizio della seduta di governo: «Se i palestinesi vogliono parlare», ha detto, «la strada per il negoziato è aperta. Ma senza alcuna condizione preliminare».
Il tono di questa reazione automatica mi ricorda la famosa frase di Moshe Dayan dopo la guerra dei Sei Giorni: «Aspettiamo la telefonata di Hussein e di Nasser». Abbiamo aspettato. È arrivata la guerra del Kippur.
Se continueremo ad aspettare, signor Netanyahu, accadrà  una tragedia. È vero, per il momento i palestinesi sono tranquilli. Quarantacinque anni di occupazione li hanno schiacciati, sgretolati e paralizzati. E siccome sono tanto sconfitti e apatici qui in Israele cresce il senso di indifferenza e l’illusione che le cose andranno avanti così per l’eternità .
Ma laddove ci sono esseri umani non c’è vera paralisi. E laddove ci sono milioni di persone oppresse non esiste un vero status quo. La disperazione e il senso di sconfitta hanno una forza e una dinamica proprie. Che aumenteranno e si addenseranno nell’ombra fino ad esplodere all’improvviso con enorme violenza.
E quando ci sarà  un nuovo scontro tra noi e i palestinesi lei, signor Natanyahu, potrà  dirci con onestà  che ha fatto di tutto per evitarlo? Che ha smosso ogni pietra? Che ha risposto a ogni appello, anche il più debole ed esitante?
Lei di certo penserà : siamo in tempo di elezioni, non è il momento di smuovere le acque, ogni passo verso i palestinesi potrebbe compromettere la solida maggioranza della destra. Lei, politico esperto, sa che ci sono anche argomentazioni concrete, valide e forti a favore di un eventuale negoziato con i palestinesi proprio in questo periodo. Ma non voglio addentrarmi in queste argomentazioni perché una discussione in proposito dovrebbe avvenire a un altro livello, in un’altra dimensione. In una dimensione in cui lei dovrebbe dar prova di essere un leader, non un politico. In una dimensione in cui lei dovrebbe riconoscere che Mahmoud Abbas è forse l’ultimo esponente di punta palestinese che dichiara che non permetterà  che ci siano una terza Intifada e nuovi atti di terrorismo. In una dimensione in cui lei dovrebbe riconoscere che le parole di Abbas in quell’intervista – per quanto “ammorbidite” e rimaneggiate in seguito (dopo tutto anche il presidente dell’Autorità  palestinese è un politico oltre che un leader) – sono forse l’ultima opportunità  di iniziare un processo che potrebbe affrancare Israele dal declino e dall’errore in cui è intrappolato da decine di anni.
In una simile dimensione sarebbe necessario un grande e audace movimento, non spasmi elettorali. La politica è, come si sa, l’arte del possibile. Ma governare, talvolta, è una vera e propria arte. È creare dal nulla. Fra noi e i palestinesi in questo momento c’è il deserto, il nulla, il vuoto. Un presidente palestinese che dice che sa che potrà  tornare a Safad, la sua città  natale, solo come turista invia a lei, signor Netanyahu, un segnale dalle profondità  di questo vuoto. Potrebbe essere un segnale falso. Oppure potrebbe spegnersi fra un istante. Potrebbe non essere altro che un tentativo di manipolazione (anche se, a giudicare dalle reazioni furiose dell’opinione pubblica araba, molti connazionali di Mahmoud Abbas prendono estremamente sul serio le sue parole). Tutto è possibile. Ma nella situazione in cui si trova Israele lei, signor primo ministro, deve rispondere a questo segnale perché, se non lo fa, se davvero non ha intenzione di reagire seriamente a questa minuscola possibilità , io faccio fatica a capire per quale motivo chiede di essere rieletto a capo del governo.
(traduzione di Alessandra Shomroni)


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