L’ULTIMO APPELLO “AMERICA, CREDI IN ME O SARà€ IL DISASTRO”
Chicago. L’ultimo grido nel suo sprint verso la vittoria Obama lo ha lanciato come un ruggito rauco.
La gola che gli bruciava, le corde vocali sfinite. È saltato sul palco di Madison, nel Wisconsin, con un balzo felino, un abbraccio a Bruce Springsteen mentre si spegnevano le note di “Land of Hope and Dreams”. Il presidente ha gridato alla folla la sua versione di quel sogno: «Un’America dove ciascuno fa la sua parte, dove c’è giustizia sociale e le regole valgono per tutti». Poi ha confessato al suo direttore della comunicazione, Dan Pfeiffer: «Stavolta ci siamo, è proprio l’ultimo. L’ultimo comizio elettorale della mia vita». È salito di corsa sull’Air Force One, la sua vera casa negli ultimi due mesi di tournée massacranti, ed è tornato qui nella sua Chicago. Qui dove tutto ebbe inizio: la militanza politica come attivista nei quartieri poveri, la prima elezione nel Senato locale, poi in quello di Washington, fino alla magica notte di quattro anni fa quando Grant Park si riempì di 250.000 entusiasti, a scaldarsi di una folle felicità in quella serata gelida del 4 novembre 2008.
Oggi ci sarà tempo per una partitina a basket con gli amici: un rito, una scaramanzia. Pfeiffer sa cosa pensa in queste ore il 44esimo presidente degli Stati Uniti. Gli ha sentito usare un tono nostalgico, quasi struggente: «È la mia ultima campagna elettorale, comunque vada». Il peso di quattro anni tremendi, l’intensità di questo appuntamento col destino, tutto si concentra in queste ore in cui il presidente ha smesso di volare da un comizio all’altro, e intorno a sé improvvisamente ha fatto un grande vuoto. Sa che se vince stasera entra due volte nella storia, e definitivamente: non più soltanto il primo presidente nero, ma potenzialmente un nuovo Roosevelt, l’uomo che avrà traghettato l’America fuori dalla crisi più pesante degli ultimi settant’anni. Se perde, in questo paese crudele con i “presidenti di una volta sola”, lui diventa una promessa tradita, la grande occasione mancata, una speranza troppo effimera. E le sue riforme saranno presto cancellate dal revanscismo della destra.
Da domani avrà inizio una vicenda diversa. Se perde, il copione prevede conferenze e viaggi, libri e una fondazione filantropica, un nobile incarico dell’Onu. Se vince, il secondo mandato è comunque un’altra cosa, senza più l’assillo della rielezione: il momento di consolidare un vero lascito storico, grandi riforme che fin qui sono sfuggite. «La scuola prima di tutto, poi l’immigrazione, e una soluzione al deficit pubblico che passi attraverso un fisco più equo»: la strada è tracciata, ma prima bisogna superare queste ore al cardiopalmo.
Davanti a Obama sfilano le delusioni del suo primo mandato, come le percepisce lui. Non essere riuscito a “usare la grande crisi” per scardinare un’egemonia culturale della destra, ridisegnare gli equilibri politici dell’America: e ora ritrovarsi di fronte un’imitazione di George Bush, la riedizione di politiche fallimentari, quelle che lui sperava screditate per sempre, e invece fanno presa anche nella middle class e nella classe operaia. Poi c’è stata l’illusione di governare con larghe intese un’America post-razziale, per poi ritrovarsi nelle piazze un Tea Party che lo dipinge come alieno, usurpatore, kenyano, islamico; e la ferocia dell’attacco sferrato dalla destra contro il diritto al voto di alcune minoranze, neri in testa, ostacolati in alcuni Stati con ogni metodo lecito e illecito.
Guardando allo specchio i suoi capelli bianchi, su cui sempre più spesso fa dell’ironia, Obama vede sfilare le immagini di una campagna elettorale assurda, dove lui il 3 ottobre a Denver è sembrato crollare, i suoi hanno gridato al tradimento per la disastrosa performance al primo duello tv: e tutto per colpa del suo profondo disprezzo verso Mitt Romney, perché lui non sopportava di dover “difendere” il bilancio dei suoi quattro anni contro un impostore, un opportunista, capace di cambiare ogni posizione per inseguire i sondaggi.
«Vedete: ho le cicatrici», è la frase affiorata negli ultimi comizi, via via che Obama sentiva avvicinarsi questa giornata finale. Le cicatrici per aver lottato contro una destra ostruzionista al Congresso, che gli ha bocciato le politiche più vigorose a sostegno del lavoro, e oggi gli rinfaccia i risultati insufficienti. «Se vi chiedono cosa rimane del 2008 – è la risposta di Obama – ebbene questa campagna è sempre all’insegna della speranza e del cambiamento». Lui stesso sa che i messaggi più martellanti sono stati di un altro segno: ha chiesto ai suoi di andare al voto per evitare il peggio, per impedire il ritorno di una destra che sprofondò l’America nel disastro economico. In queste ore forse tra la sua base è la paura che farà la differenza, non la speranza. Obama ha studiato fino all’ultimo i sondaggi, ha osservato i fremiti di un rialzo in suo favore, il vantaggio negli “Stati chiave” che sono il suo percorso verso la rielezione.
Nell’ultima cena con un piccolo gruppo di elettori tirati a sorte, non si è parlato di politica. La signora Kimberley Cathey dice di averlo trovato di una calma impressionante. «Io e la mia famiglia staremo bene, credetemi, qualunque cosa accada», le ha detto il presidente. L’America vorrebbe poter dire altrettanto.
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