Il terzo incomodo è il Partito X sulla “democrazia perfetta” cala l’incubo del pareggio

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WASHINGTON. C’È UN terzo uomo senza volto che potrebbe vincere queste presidenziali americane, un “convitato di pietra” che siede al tavolo della incertezza fra Romney e Obama. Il suo nome è Nessuno. Il suo partito è il Partito X.
È IL partito del possibile pareggio fra i due contendenti nel solo numero che conti per essere eletti Presidente degli Stati Uniti, i 270 su 538 “grandi elettori” nei quali si tradurranno secondo la Costituzione i cento dieci milioni di voti che saranno espressi domani.
Per raro che sia nella storia della repubblica nordamericana e per remota che sia la possibilità  statistica, il “Fattore X” non è mai stato così forte dall’anno 2000, quando George W. Bush, dopo un mese di strazianti e a volte ridicole «riconte» fra «schede vergini » e «schede incinte» secondo le perforazioni e le protuberanze lasciate dalle matite, riuscì ad afferrare la Casa Bianca con un solo elettore sopra il margine minimo, 271. E il lasciapassare dei giudici della Corte Suprema, sempre per un solo voto, 5 a 4.
Nessuno dei sondaggi garantisce a Obama, né a Romney, un vantaggio che sia oltre quella percentuale di errore che tutte le ricerche demografiche serie comportano e che andrebbe sempre annunciato. Anche dove Obama è avanti di 3 o 4 punti percentuali, il dubbio sulla affluenza e il ricordo “dell’Effetto Bradley” rende tutto aleatorio. Tom Bradley era il sindaco afroamericano di Los Angeles che nel 1982 concorse alle elezione per il Governatorato della California sicuro dei sondaggi che lo davano stabilmente al 3% sopra l’avversario. Perse, perché una quota di elettori che avevano promesso di votare per lui, temendo di apparire razzisti, nel segreto della cabina votarono l’avversario bianco.
Nel 2008, “l’Effetto Bradley” fu travolto dall’onda di marea che portò Obama alla Casa Bianca con grande vantaggio. Ma se in questo 2012 il riflusso dell’entusiasmo fra i democratici, i giovani, le donne, i latinos per lui fosse forte come le indagini sospettano, tutti quei minuscoli punti percentuali di maggioranza che oggi danno il presidente come favorito sarebbero risucchiati e cancellati. E potrebbero lasciare lui e Romney a dividersi esattamente il bottino dei 538 grandi elettori, malauguratamente costruiti, dagli emendamenti della Costituzione, in numero pari, dunque esattamente divisibile. 538 quanti sono i 435 collegi elettorali per la Camera dei Rappresentanti, più i 100 collegi senatoriali (due per ogni Stato membro dell’Unione) più tre assegnati al Distretto di Columbia, la capitale Washington, che non ha una propria rappresentanza parlamentare.
Le permutazioni aritmetiche fra voti popolari e delegati di singoli stati sono straordinariamente complesse, ma non affatto escluse. Nate Silver, il più autorevole e imparziale fra gli analisti di sondaggi che ogni giorno soppesa, filtra e distilla le dozzine di «polls» spesso completamente contraddittori e faziosamente colorati, tende a escluderla, dando a Obama l’80 per cento di probabilità  di superare la soglia magica del 270 e a Romney appena il 20%. Ma essere favoriti non significa essere vincitori, avverte Silver. «Il 20% sembra poco — si chiede — ma chi di noi si fiderebbe a imbarcarsi su un aereo che ha il 20% di probabilità  di precipitare?».
Ma ogni combinazione astrale è verosimile, in favore di «Mister Nessuno». Se Obama perdesse i 18 voti elettorali dell’Ohio dove è favorito — e Romney vincesse i 20 della Pennsylvania, dove è indietro, se Florida, Virginia, Wisconsin, Colorado, North Carolina, New Hampshire, Nevada, gli Stati chiave, dovessero disporsi in un mosaico imprevisto e stati sicuri per Obama come il New Jersey risultare sconvolti dal disastro Sandy che impedirà  a decine di migliaia di cittadini di votare per mancanza di seggi e di mezzi di trasporto, tutto diventa aritmeticamente realistico.
Toccherebbe allora a Camera e Senato decidere il risultato, come non accade più dal 1825, l’unico caso di una Presidenza decisa dal Parlamento, che scelse John Quincy Adams, dopo l’approvazione del XII emendamento. Vincerebbe allora certamente Mitt Romney, perchè la Camera è, e rimarrà  nelle mani dei repubblicani, e ad essa spetta la decisione. Ma è il Senato che invece deve eleggere il vice presidente e il Senato resterà  Democratico. Si avrebbero così un Presidente Romney e un Vice Presidente Biden, di partiti opposti. E sarebbe la definitiva affermazione per coloro, sempre più numerosi, ma ancora non abbastanza, che da decenni vorrebbero buttare a mare un sistema elettorale anacronistico, scritto e costruito per una nazione che contava appena 13 stati e funzionava a forza di muscoli umani o animale. E scelse il martedì come giornata di voto pensando a un elettorato in grado di spostarsi soltanto a piedi, a cavallo o in calesse. Dunque niente domenica, perché è il «sabbath» del Dio dei Cristiani. Niente lunedì, perché le distanze erano troppo lunghe per consentire ai devoti di raggiungere seggi con i loro modesti mezzi. E neppure mercoledì, giorno dedicato all’altro grande Dio della neonata nazione, il giorno dei mercati, era accettabile.
Già  la tragicommedia del 2000, quando 537 voti in Florida a favore di Bush contarono più dei 550 mila che nel resto degli Usa avevano assegnato la maggioranza popolare a Gore fece rabbrividire, e vergognare, la nazione che si vanta di essere la «luminosa città  sulla collina» della democrazia. Obama potrebbe vincere la Casa Bianca prendendo, come già  Bush, meno voti complessivi di Romney, ma più dei 270 «grandi elettori» necessari. Un presidente senza mandato. E una garanzia di altri quattro anni di boicottaggi, di stallo, di rabbia e di recriminazioni e di ulteriore discredito per la dirigenza politica. Lo specchio perfetto e ironico di un’altra democrazia, e la più importante del mondo, paralizzata dal rancore e  dalla divisioni interne.


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