La Grande recessione nell’urna

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NEW YORK. Martedì prossimo Barack Obama e Mitt Romney vanno finalmente alla conta dei voti. I loro sorrisi accattivanti, le loro politiche, hanno invaso martellanti le case di ogni angolo d’America in queste ultime settimane di campagna. Eppure, a ben vedere, né l’uno né l’altro saranno il vincitore, o lo sconfitto, della notte del 6 novembre. Perché è un’altra la battaglia che si sta giocando ora sul filo di lana. Più profonda, e nascosta. E che in realtà  si è giocata, con alterne vicende, in questi quattro anni.
La sorte della Casa bianca è infatti nelle mani di due contendenti certo meno telegenici dei candidati ufficiali, ma molto meno astratti di quanto a prima vista si possa pensare. L’economia, che con la Grande recessione e l’anemica ripresa che l’ha seguita, ha ridisegnato il tessuto sociale, persino la geografia del paese, è la grande alleata di Mitt Romney. È lei che ha alimentato i cattivi sentimenti su cui sono nati e cresciuti i Tea party, l’ultima creatura della destra repubblicana, pronta ora a riproporre il mito delle politiche di austerità  che già  tanti danni hanno fatto in Europa. Ma a cercare di sbarrarle la strada, da subito, c’è stata un’altra protagonista, la demografia. Ovvero l’impetuoso, e ormai non più sotterraneo mutamento che sta mettendo in discussione l’identità  dell’America. Quantomeno, e certo non è poco, quella legata al colore della pelle dei suoi cittadini e elettori.
Asiatici, neri caraibici, messicani e latinos sono sbarcati a decine di migliaia sulle coste, hanno attraversato i confini. E se ancora tutti li chiamano minorities, sempre più spesso, e non solo a New York o a Los Angeles, non è più così. Le statistiche gli daranno la vittoria finale solo tra una decina di anni, ma è dalla primavera scorsa che i loro figli sono già  la nuova maggioranza nel paese. E non per un pelo. In Georgia, per fare un solo esempio, in un solo anno, tra il 2010 e il 2011, i neonati ispanici sono cresciuti addirittura del 20 per cento. 
Certo, né loro né tanti loro fratellini maggiori hanno l’età  per votare. Ma i loro genitori sì. E spesso il risultato finale sarà  nelle loro mani. Basta pensare che in soli dieci anni in uno dei tanti stati tuttora in bilico, il Nevada, la popolazione ispanica negli ultimi dieci anni è cresciuta del 78 per cento. In Virginia, dove da settimane repubblicani e democratici sono testa a testa, addirittura del 200 per cento. Qui, come altrove, del resto se nel 2008 Obama era volato alla Casa bianca era stato proprio per merito loro.
Questa volta però, nonostante i numeri, potrebbe non essere così. Perché la Grande recessione ha scavato anche nelle loro vite, e forse nei loro cuori. La disoccupazione, arrivata ora appena appena sotto l’8 per cento a livello nazionale, sale infatti oltre il 10, a volte oltre il 15 per cento quando sei un americano ma non hai la pelle bianca. E se in pochi hanno cambiato idea su chi vorrebbero come presidente (Obama mantiene un vantaggio addirittura del 50 per cento tra gli elettori non bianchi) ciò che conta alla fine è chi davvero si presenterà  tra due giorni ai seggi. Stretti tra economia e demografia, martedì tanti potrebbero finire, delusi e disincantati, per chiudersi in casa, disertare le urne. Lasciando che, magari per l’ultima volta siano gli altri, la futura minority d’America, il voto bianco su cui tanto ha puntato la strategia di Mitt Romney, a prendersi la Casa bianca. Trasformandola in una nuova inutile, ma pericolosissima per tutti, Fort Alamo.


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