La tigre di carta di Marchionne
Addirittura membri autorevoli del governo hanno sentito il bisogno di prendere le distanze da un modo di comportarsi – e, a questo punto, anche di pensare – tanto estraneo ad elementari principi di libertà e garanzie costituzionali da sembrare addirittura alieno: da quale mondo giunge mai una persona che ritiene ed afferma che il sindacato e i lavoratori che non accettano supinamente le sue imposizioni debbano essere semplicemente espulsi dal posto di lavoro?
Non si può dimenticare però che poco più di un anno fa quella stessa persona che oggi minaccia di espellere altrettanti lavoratori di quanti sarà costretto ad assumerne dalla Corte d’Appello era subissato dalle lodi e dagli applausi non solo del padronato e dei politici moderati, ma anche dei sedicenti progressisti e di altri sindacati che amavano definirsi «complici».
Così tra gli estimatori più calorosi vi erano il sindaco di Torino, attuale e precedente, on. Fassino e Chiamparino, mentre l’astro nascente del Pd Matteo Renzi esprimeva il suo entusiasmo esibendosi nello slogan: «Uno, cento, mille, Marchionne».
Oggi tutti concordano nel ritenere contraria alla Costituzione e a ogni Carta dei diritti dell’uomo e ai principi fondanti di ogni civiltà del lavoro quella minaccia di rappresaglia, ma vogliamo aggiungere che anche sul piano più semplice e prosaico del normale diritto del lavoro nella sua strumentazione civilistica e non solo alla luce dei più alti principi di ordine costituzionale quella minaccia è del tutto infondata e davvero una «tigre di carta».
Per un principio, infatti, fermissimo e tradizionale di diritto civile nessuno può addurre un proprio precedente illecito come ragione giustificatrice di un suo comportamento: dicevano i giuristi latini che «nemo auditur allegans turpitudinem suam» e cioè, nel nostro caso, che non è consentito a Marchionne o a Fiat affermare che l’aver in precedenza discriminato dei lavoratori che avrebbe dovuto assumere, costituisce ora la ragione giustificatrice dei futuri licenziamenti.
Se così non fosse ogni volta che un datore di lavoro è costretto a reintegrare un lavoratore in precedenza ingiustamente licenziato, potrebbe licenziare ed espellere quello che allora assunse in sua sostituzione. Ed ancora che il datore di lavoro che abbia sfacciatamente ignorato l’obbligo di assumere obbligatoriamente un invalido in proporzione del livello occupazionale esistente nella sua azienda, potrebbe ancora, non appena multato e obbligato dall’Ispettorato del lavoro ad assumere l’invalido, potrebbe licenziare un altro dei lavoratori in forza.
E che dire allora del datore di lavoro che dopo aver ingiustamente negato al lavoratore che ha svolto a lungo mansioni superiori l’inquadramento e la relativa relativa qualifica, assumendone un altro per quella posizione lavorativa, voglia poi licenziare quest’ultimo quando il giudice riconosce che al primo la qualifica è stata ingiustamente negata?
Oppure del datore di lavoro che incorso in una sospensione della sua attività per aver violato le norme antinquinamento, pretendesse di licenziare i suoi lavoratori, così prendendoli in ostaggio rispetto alla «cattiva» autorità giudiziaria procedente?
Sono tutti casi, ed altri se ne potrebbero trovare, che rispondono a quel medesimo principio: da un illecito non sorge, per chi l’ha commesso, alcuna legittima facoltà o potere!
Ed allora ci permettiamo, noi modesti ma determinati difensori dei diritti non solo dei lavoratori della Fiom ma di tutti i lavoratori, di lanciare al «marziano» Marchionne questo guanto di sfida: se procederà a quei 19 licenziamenti o a quegli altri 126 corrispondenti a quanti dovrà ancora assumerne in forza della sentenza della Corte d’appello di Roma, il pool di avvocati che ha difeso i discriminati difenderà anche gli altri colpiti dalla sua rappresaglia, e del tutto gratuitamente come è avvenuto per i primi e si crede con buone possibilità di successo.
Perché gli eserciti di volontari – ci si consenta di dirlo – hanno sempre avuto la meglio su gli eserciti mercenari.
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