La polizia condannata per i controlli ai «non ariani»

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C’è vita oltre la Bundesbank: dalla Germania, ogni tanto, può arrivare anche una buona notizia. Come sicuramente è la sentenza pronunciata lo scorso lunedì dalla Corte amministrativa d’appello del Land della Renania-Palatinato, con sede a Coblenza, in materia di controlli di polizia.
I giudici tedeschi hanno affermato che è illegale chiedere i documenti a una «persona sospetta» solo in virtù del colore della sua pelle: è una discriminazione proibita dall’articolo 3 del Grundgesetz, la Costituzione della Repubblica federale.
Un colpo durissimo all’ordinario razzismo di stato al quale, purtroppo, è facile abituarsi, in Germania come altrove. Un «non-bianco» ha molte più probabilità  di essere fermato dagli agenti per la classica richiesta di documenti rispetto ad un «bianco». Per saperlo non serve leggere trattati di sociologia, basta girare per la strada. O andare in treno, come capitava al ventiseienne che ha avuto il coraggio di denunciare la polizia federale (Bundespolizei) per comportamento discriminatorio.
Il protagonista della vicenda – riferisce il quotidiano di sinistra die taz – è uno studente di architettura, cittadino tedesco di origine extra-europea. 
Siamo nel dicembre 2010 e il giovane è in viaggio sul regionale che collega Kassel a Francoforte (nel Land dell’Assia). Quando gli agenti che pattugliano il treno gli chiedono di esibire la carta d’identità  disobbedisce: è convinto di essere stato «scelto» dagli agenti in base ai suoi tratti somatici. Non è un bianco, quindi è sospetto: di fronte a questo scandalo si ribella. E su di lui piove l’immancabile denuncia per oltraggio: nell’alterco dà  dei «nazisti» ai poliziotti.
Nel processo che ne segue, però, succede l’imprevisto. A precisa domanda sul perché proprio quel passeggero dovesse mostrare i documenti, uno dei poliziotti coinvolti dice tranquillamente che il colore della pelle è uno dei criteri per scegliere a chi rivolgersi: bisogna o no difendersi dal terrorismo islamista? Puro buonsenso, pensa l’agente. A quel punto, però, la vicenda si capovolge di segno. Lo studente è assolto dall’accusa di oltraggio e sul banco degli imputati – in un tribunale amministrativo – finisce la Bundespolizei, denunciata dal giovane per discriminazione. 
Il caso passa per competenza alla corte di Coblenza e, in prima istanza, al ventiseienne viene dato torto: i controlli effettuati «sulla base della fisionomia esteriore» sono dichiarati ammissibili. Una decisione che suscita scandalo e contro la quale alzano la voce le organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Il nostro studente non demorde e fa appello. E pochi giorni fa, finalmente, incassa la vittoria giudiziaria che mette la parola fine al contenzioso fra lui e la polizia federale. E soprattutto che dovrebbe sancire la fine una volta per tutte delle odiose pratiche discriminatorie della Bundespolizei verso tutti quelli che hanno «una fisionomia esteriore» diversa da quella considerata «normale» e ammissibile in territorio tedesco.
Il caso mostra come il tema del «racial profiling» (in italiano «profilazione razziale») sia da tempo sbarcato anche in Europa. Non è più solo un tipico problema degli Stati Uniti, dove, come noto, la «linea del colore» conta moltissimo e il razzismo della polizia è all’ordine del giorno (è uno dei temi su cui Obama, per esempio, ha agito di più durante la sua presidenza, ndr). 
Ora nella Repubblica federale tedesca – dove l’odio razziale è più diffuso di quanto si creda all’estero – il colore della pelle non è più un criterio legalmente valido per formulare un ragionevole sospetto che porti a fermare e identificare un individuo. Non è di per sé una garanzia che gli abusi cesseranno ma certo è un passo fondamentale. 
Oltre che per l’austerità  dei bilanci, il resto d’Europa imiterà  la Germania anche in questo?


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