Da Romney uno schiaffo all’Italia«Con Obama faremo la fine di Atene, Madrid e Roma»

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NEW YORK — Con l’America che riemerge lentamente dallo choc dell’uragano Sandy, Barack Obama e Mitt Romney tornano a fare campagna elettorale e lanciano la loro volata. I sondaggi dicono che la battaglia resta assai incerta, ma segnalano anche che, dopo settimane in continuo recupero, il candidato repubblicano non ha più il vento in poppa (l’ultimo poll della Cnn dà  nuovamente il presidente in vantaggio di due punti sul piano nazionale, mentre il Wall Street Journal lo vede in testa negli Stati-chiave in cui ha fatto rilevazioni nei giorni scorsi: Iowa, Wisconsin e New Hampshire). E allora Romney, che nelle ore della bufera aveva abbassato i toni della polemica politica, ieri è tornato a sparare a zero su Obama accusandolo di voler seguire negli Stati Uniti la stessa politica della spesa pubblica che ha avuto effetti disastrosi in Europa.
E il leader conservatore, che in passato aveva citato soprattutto Grecia e Spagna, stavolta se l’è pesa anche con l’Italia: «Se sei un imprenditore — ha chiesto alla gente di Roanoke, in Virginia, andata ad ascoltare un suo comizio — e stai pensando di mettere in piedi una nuova attività , devi chiederti: l’America rischia di fare la fine della Grecia? Le politiche del presidente Obama ci ridurranno in una situazione di crisi economica come quella che stiamo vedendo in Europa, in Spagna e in Italia? Beh, se continuiamo a spendere ogni anno mille miliardi di dollari in più di quello che entra in cassa, è lì che finiremo».
Parole dure, ma un tema non certo inedito per la campagna di Romney, che in passato ha più volte attaccato «Obama l’europeo». Il presidente, tornato a sua volta sul sentiero della campagna con un tour finale in sette Stati — iniziato ieri in Wisconsin, finirà  lunedì in Iowa — ha replicato da Green Bay che i democratici hanno la ricetta per ridare fiato a una classe media che è stata messa con le spalle al muro. Un ceto, ha detto, schiacciato per anni dalle politiche economiche delle precedenti amministrazioni repubblicane, oltre che dei cambiamenti — colossali e ineluttabili — imposti dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione.
E, per convincere il suo pubblico di avere la ricetta giusta, ieri Obama ha usato a piene mani, più di quanto non abbia mai fatto in passato, l’eredità  politica di un altro presidente democratico: «L’esperienza di Bill Clinton che nei suoi anni alla Casa Bianca creò 23 milioni di posti di lavoro e lasciò al suo successore un bilancio federale risanato e, anzi, in attivo, dimostra che sappiamo farci con l’economia, anche se le difficoltà  da affrontare sono enormi e non l’abbiamo mai nascosto». 
Un Obama di nuovo vigoroso, perfino aggressivo, che ieri ha ricevuto anche l’endorsement del sindaco di New York Michael Bloomberg (ex repubblicano, ora indipendente), che ha detto di aver fatto questa scelta per la maggior attenzione del presidente ai problemi della tutela dell’ambiente.
Il riferimento critico di Romney al nostro Paese, comunque, colpisce anche perché viene pochi giorni dopo il suo attacco alla Chrysler «italiana». Il candidato repubblicano, deciso a conquistare l’Ohio anche negando il successo del salvataggio dell’industria automobilistica Usa che proprio in questo Stato ha assunto e riattivato diversi stabilimenti, venerdì aveva detto di aver letto che «la Jeep, che ora è posseduta dagli italiani, si appresta a trasferire tutta la sua produzione in Cina». La Jeep fa parte del gruppo Chrysler, a sua volta controllato dalla Fiat. L’azienda di Detroit ha subito smentito e lo stesso amministratore delegato Sergio Marchionne ha scritto una lettera a tutti i suoi dipendenti assicurando che l’azienda, che ha registrato incrementi record di produzione e vendite, non ha alcuna intenzione di delocalizzare. Ma, due giorni dopo, la campagna di Romney ha ugualmente cominciato a diffondere uno spot televisivo basato sull’«accusa cinese» alla Chrysler. Qualificata non come un’azienda controllata dalla Fiat o «da un gruppo italiano» ma «di proprietà  degli italiani». «The Italians»: un’espressione sgradevole che certo non ha fatto piacere ai cittadini (ed elettori) che hanno le loro radici nel nostro Paese.
Massimo Gaggi


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