Il miraggio dell’olio «sostenibile»
L’elenco è il risultato di un’analisi condotta dalla rete internazionale Forest Peoples Programme insieme all’organizzazione indonesiana SawitWatch e altre organizzazioni della società civile dei paesi citati: hanno passato in rivista le operazioni di una 15ina di aziende del settore dell’olio di palma che dichiarano di aderite al codice di condotta della Tavola rotonda (che indicheremo con l’acronimo Rspo, Roundtable on Sustainable Palm Oil). E ne hanno tratto una nuova mappa di casi di land grab, accaparramenti di terre.
Il primo dato che se ne ricava è che le maggiori aziende asiatiche – in particolare di Indonesia e Malaysia, i due paesi al primo posto per l’export di olio di palma – stanno attivamente «colonizzando» la regione tropicale africana. Prendiamo il caso di Sinar Mas, la più grande impresa indonesiana in questo business: con la sua sussidiaria Golden Veroleum, di cui ha la proprietà indiretta, ha preso in concessione 33 mila ettari di terra in Liberia, nel distretto di Butaw, provincia di Sinoe. Ma sta violando tutte le procedure della Rspo, a cui pure ha aderito, dice Alfred Brownell, avvocato dell’organizzazione non governativa Green Advocates che rappresenta le popolazioni Kru scacciate dalle loro terre da quel progetto: si tratta di tagliare la foresta esistente per piantare palme della varietà da olio, ma l’azienda «non ha chiariro i suoi progetti» né predisposto un piano di conservazione: sta solo tagliando a manbassa. Secondo quel «codice di condotta» dovrebbe sospendere tutto, avviare consultazioni con la popolazione locale, ottenere il loro «consenso libero e informato». Invece, «gli abitanti temono che le loro terre saranno prese senza il loro consenso, senza neppure informarli», dice Brownell – che è andato a Singapore per esporre la situazione.
Questo è il secondo conflitto, in Liberia, che coinvolge un’azienda aderente alla «Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile». Sime Darby, sussidiaria del più grande consorzio di produttori di olio di palma in Malaysia, ha ottenuto nel 2009 dal governo liberiano una mega concessione (220mila ettari) nel distretto di Garwula, nella parte occidentale del paese, e ha suscitato proteste l’anno scorso con un progetto di espansione che non rispetta i diritti della popolazione. Un gruppo di ricercatori locali, riuniti nel Sustainable Development Institute, ha documentato che gli abitanti di quella zone «si trovano ora con la piantagione davanti a casa, i loro campi e le loro fattorie inglobale dall’impresa, e poche o nulle alternative per sopravvivere» (così scrivono nel rapporto Uncertain Future, futuro incerto, diffuso alla fine di settembre). Gli agricoltori locali lamentano di aver ricevuto risarcimenti minimi per i raccolti distrutti nell’espansione di Sime Darby, e che le zone di foresta comune sono state spianate e ripiantate. Va riconosciuto che qui l’azienda ha cominciato a negoziare con le comunità locali, riferisce il Forest Peoples Programme.
I casi elencati sono numerosi. Ma tutto questo solelva un problema di fondo: è credibile quel «codice di condotta» per «l’olio di palma sostenibile»? Mica tanto, a giudicare da cosa fanno sul terreno le imprese che pure si fanno belle dando la loro adesione. Per questo l’organizzazione indonesiana SawitWatch ha deciso di uscire dal consiglio direttivo della «tavola rotonda»: non si presteranno a fare da foglia di fico «sostenibile» per coprire l’ultima corsa ad arraffare terre.
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