Quattro idee per l’Italia prigioniera delle lobby

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«Cominciando a regnare Carlo Borbone, undici legislazioni, o da decreti di principe, o da leggi non rivocate, o da autorità  di uso reggevano il regno; ed erano: l’antica Romana, la Longobarda, la Normanna, la Sveva, l’Angioina, l’Aragonese, l’Austriaca spagnuola, l’Austriaca tedesca, la Feudale, la Ecclesiastica, la quale governava le moltissime persone e gli sterminati possessi della Chiesa, la Greca nelle consuetudini di Napoli, Amalfi, Gaeta ed altre città  un tempo rette da uffiziali dell’impero di Oriente…». Fatto sta che «non bastando alla procedura i riti di Giovanna II, suppliva l’uso, e più spesso l’arbitrio del vicerè».
Dà  il capogiro, leggere la Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta: come puoi governare un Paese prigioniero in un groviglio di leggi?
Eppure, denuncia Michele Ainis nel saggio Privilegium, L’Italia divorata dalle lobby, non viviamo oggi in una situazione troppo diversa. Riprendiamo le Passeggiate romane di Stendhal: «La maggior parte degli atti di governo papali sono una deroga a una regola, ottenuta grazie al credito d’una giovine donna o di una grossa somma». Cos’è cambiato, da allora?
La regola, risponde Ainis, «non esiste più: sommersa, annegata, soffocata da 63.194 deroghe. In origine accadde per motivi nobili, o almeno ragionevoli. Dopo l’Unità  d’Italia c’era l’esigenza di differenziare la legislazione perché erano profondamente differenti i livelli di sviluppo delle varie aree del Paese». Ma oggi «la musica è ben altra: sono le corporazioni a pretendere e ottenere leggine di favore. Sicché in ultimo ogni categoria indossa un vestito normativo diverso da quello cucito sulle spalle della categoria gemella. Non c’è più un unico sarto, la legge generale è ormai un ricordo. Il nostro diritto è diventato capriccioso e instabile, alluvionato da regolette minute e di dettaglio». Fatte apposta per tenere la società  bloccata. Impedire il ricambio. Escludere i giovani.
«Se ogni categoria si chiude a riccio, se difende a denti stretti i propri privilegi, non c’e affatto da sorprendersi se il 53 per cento degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine». Men che meno se «sette figli d’operai su dieci continueranno a fare gli operai» e se «in Italia la probabilità  di schiodarsi dalla classe di reddito dei propri genitori è tre volte più bassa rispetto agli Stati Uniti».
Ed ecco che «ai servizi segreti viene riconosciuta un'”indennità  di silenzio” in busta paga» e ai dipendenti della Siae «un'”indennità  di penna” per compensarli dell’imposizione del computer al posto del vecchio calamaio» e ai funzionari di Bankitalia 8500 euro ogni sei mesi di «buono sarto» per vestirsi all’altezza del ruolo.
Una giungla di privilegi minuscoli o assurdi. Come il diritto a trasmettere il posto di lavoro al figlio o alla vedova contrattualmente riconosciuto, per quote, non solo in alcuni grandi istituti di credito, ma perfino nella stessa Banca d’Italia. Per non dire dell’ereditarietà  di fatto dovuta a una serie di meccanismi corporativi: «il 44 per cento degli architetti ha il papà  architetto, il 42 per cento degli avvocati è figlio d’avvocati, il 39 per cento degli ingegneri genera figli ingegneri, cosi come il 39 per cento dei padri medici…».
Come sbloccarla, una situazione che impedisce l’irruzione nel mondo del lavoro e soprattutto nelle professioni ai giovani e alle donne che non sono «figli di» o «mogli di»? Dovrebbe pensarci, ovvio, il Parlamento. Ma in questo Paese che registra la presenza di ventotto ordini più una infinità  di albi (c’è perfino quello dei «buttafuori»), siedono alle Camere «133 avvocati, 53 medici, 4 farmacisti e altrettanti notai, 23 commercialisti, 13 architetti, una novantina di giornalisti. Totale: alla data del 2011, dopo qualche dozzina di subentri, il 44 per cento dei membri del Parlamento aveva in tasca la tessera d’un albo, sicché la lobby dei professionisti era la più potente fra le stanze del Palazzo».
Lo si è visto più volte, come nel luglio 2011, quando l’ultimo governo Berlusconi, boccheggiante, tentò una riforma degli ordini: «Apriti cielo: il presidente del Consiglio nazionale forense, Guido Alpa, esprime immediatamente il proprio sdegno; il presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura, Maurizio de Tilla, parla di turbo-deregulation; il presidente del Collegio nazionale dei periti agrari, Andrea Bottaro, denuncia l’attacco alle professioni; il presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani, Andrea Mandelli, punta l’indice contro la liberalizzazione selvaggia… E infine tutti questi presidenti armano la mano di ventidue senatori-avvocati, che scrivono una lettera di fuoco al presidente del Senato-avvocato Renato Schifani, con il sostegno esplicito del ministro-avvocato Ignazio La Russa: amen, tutto rinviato alle prossime generazioni».
Insomma, «nessuna liberalizzazione delle attività  economiche, nessun disboscamento della selva di privilegi che ci attornia potrà  mai attecchire se i privilegiati detengono la potestà  legislativa». E allora? Ainis dice che non bastano dei ritocchi: «Non resta che la rivoluzione. Pacifica, ordinata; ma senza dispense né indulgenze, senza salvacondotti per i vecchi vassalli e valvassori».
A partire, si capisce, dal Parlamento.
Primo: va segato «il ramo su cui stanno inchiodati i professionisti del potere: due mandati e via col vento».
Secondo: va rafforzato il referendum abrogativo, «attraverso l’abolizione del quorum».
Terzo: va introdotto «l’istituto del recall per revocare anzitempo gli eletti immeritevoli», come accade da un secolo in California ma anche in altri diciotto Stati dell’Unione e in Canada, Giappone, Svizzera e vari paesi latino-americani.
Quarto: «Serve una sede di rappresentanza degli esclusi — i giovani, le donne, i disoccupati, ma in fondo siamo tutti esclusi da questo Parlamento. Tale sede può ben essere il Senato, trasformandolo però in una “Camera dei cittadini” designata per sorteggio, in modo da riflettere il profilo socio-demografico del Paese. Un’idea bislacca? Mica tanto». Era affidato anche ai sorteggi, come formula per arginare prepotenze e pressioni, la stessa elezione del Maggior Consiglio della Repubblica di Venezia. E Aristotele «diceva che l’elezione è tipica delle aristocrazie, il sorteggio delle democrazie».
Una forzatura, forse. Ma è più democratica l’elezione di un capobastone padrone delle tessere o l’inserimento nel «listino» di soubrette, mogliettine o condannati?


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