Voto frammentato, spunta la «sindrome greca»

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ROMA — Nell’Isola c’è un vincitore ma sul Continente sono tutti vinti. Perché il risultato delle elezioni siciliane consegna un sistema dei partiti sempre più frammentato, tanto da far risultare l’Italia sempre più simile alla Grecia. Ieri era legittima l’esultanza di Bersani così come la soddisfazione di Casini per la vittoria di Crocetta, ma a parte il fatto che l’alleanza sancita a Palermo da Pd e Udc è ben diversa dagli accordi stretti a Roma tra i Democratici e la sinistra di Vendola, il problema è che nessuna forza politica in Sicilia è riuscita a toccare quota 20%.

È questo il dato più allarmante, sebbene il voto regionale non possa essere utilizzato come parametro nazionale, visto che nell’ultimo report dei sondaggi riservati — arrivato ieri sui tavoli dei partiti — il Pd ha superato per la prima volta la soglia del 30%. Tuttavia anche i dirigenti democrat sanno che il rilevamento è «drogato» dalle primarie, e che difficilmente la somma prodotta dalla sfida tra Bersani e Renzi sarà  per intero componibile alle elezioni politiche. Se a questo si aggiunge il fixing dei restanti partiti, è evidente la frana di sistema: con il Pdl al 17%, l’Udc sotto la soglia del 7% e Sel intorno al 5%, restano le forze non coalizzate come la Lega (vicina al 6%), l’Idv (appena sopra il 4%), e soprattutto M5S, considerata ormai la seconda forza su scala nazionale, vicina al 18%.
Ecco il punto: i grillini, ormai stabilizzatisi, sono la massa critica di un blocco che si aggira intorno al 30%. Così dietro i sorrisi dell’ufficialità , monta la preoccupazione nel Pd come nell’Udc, per non parlare del Pdl in caduta libera. Ora, è vero che Cinque Stelle in Sicilia ha raccolto «solo» il 14,7% di nemmeno la metà  degli aventi diritto al voto, e che l’astensionismo è il buco nero dove sono stati attratti la gran parte dei consensi berlusconiani, ma è altrettanto vero che — come raccontano autorevoli esponenti centristi — «è grazie alle preferenze che i partiti tradizionali, compreso il nostro, sono riusciti ad arginare il fenomeno grillino». I candidati — solitamente avvezzi alla raccolta del consenso porta a porta — hanno riferito di aver faticato a racimolare voti.
Non c’è dubbio che si tratti di una visione di parte, e che l’Udc se ne serva per sponsorizzare la reintroduzione delle preferenze nel modello elettorale nazionale, ma la «sindrome greca» preoccupa tutti i partiti. L’analisi è comune, non lo è la soluzione. Prosegue così il braccio di ferro che tiene in scacco la riforma del Porcellum, tra chi vorrebbe preservarlo con un restyling e chi vorrebbe accantonarlo. Se il nodo è garantire la governabilità , il capogruppo del Pd Franceschini ritiene che «non vada gettata l’unica cosa positiva realizzata in venti anni di conflitto»: «Abbiamo conquistato un sistema bipolare, perché dovremmo disfarcene?».
Quella del dirigente democratico è la strenua difesa dagli attacchi di chi, abbassando il premio di maggioranza o aumentando la soglia per ottenerlo, vorrebbe di fatto cancellare il bipolarismo. È la dimostrazione di quanto forti siano le resistenze rispetto a chi usa argomenti opposti. «Con una frammentazione così accentuata — ribatte il segretario dell’Udc Cesa — una nuova legge elettorale va fatta, e va fatta in fretta. Se non lo facessimo, ci ritroveremmo con i grillini al 20% e un Parlamento ingovernabile». Traduzione dal politichese: per Cesa il Pd non può pensare di accaparrarsi alle elezioni un premio di maggioranza esorbitante rispetto al risultato che otterrà , perciò — visti i numeri — nella prossima legislatura c’è solo la possibilità  di formare un gabinetto di larghe intese. Per Franceschini un simile governo, sotto la pressione di M5S e Lega, avrebbe vita breve.
Le divergenze tra Pd e Udc sul sistema elettorale evidenziano le differenti strategie dei due partiti, e sono la plastica dimostrazione di quanto fragile sia la tesi rilanciata ieri da Casini dopo la vittoria di Crocetta: «L’indicazione che giunge dal voto siciliano è l’ineludibilità  del rapporto tra progressisti e moderati, unico antidoto all’antipolitica». Il leader centrista ha buon gioco a sottolineare come Sel e Idv siano rimasti fuori dall’Assemblea regionale a Palermo, ma Pd e Udc insieme non riuscirebbero comunque a fare maggioranza in Parlamento a Roma. Dunque…
Dallo stallo non si esce, nonostante l’intenzione del presidente del Senato di far votare la riforma entro due settimane dall’Aula di palazzo Madama. E malgrado la moral suasion del capo dello Stato, che continua a minacciare il ricorso al messaggio alle Camere. Per il resto è opinione comune nelle forze politiche che l’ipotesi del decreto — di cui si parla a livello istituzionale ma che più volte il governo ha smentito — sia «un’arma scarica».
L’ago della bilancia in questa vicenda sarebbe il Pdl. Sarebbe, perché un partito in ginocchio nei consensi e attraversato da un feroce scontro interno, non ha una posizione compatta. C’è in effetti un accordo per andare avanti con le votazioni al Senato, ma con Berlusconi ancora posizionato sul Porcellum e il rischio che salti tutto alla Camera, ieri Alfano non è potuto andare oltre l’intenzione di «abolire la lista dei nominati, che giustamente gli italiani non vogliono più». Il nodo però è il premio di maggioranza, che forse sarà  sciolto dopo le primarie. Forse.


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