Mattatoio Siria, l’Europa non resti a guardare

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Quando la contestazione è cominciata a Deraa, a marzo del 2011, nella scia delle «primavere arabe», nessuno avrebbe immaginato che, venti mesi dopo, il regime baathista si sarebbe spinto a massacrare circa quarantamila persone; a rapire, a torturare o a far scomparire altre migliaia di persone, a inviare i carri armati e l’aviazione contro il popolo. Il suo popolo. E nessuno avrebbe immaginato la comunità  internazionale abbandonare, senza vergogna, le popolazioni siriane nelle mani dei loro carnefici.
Appena la contestazione si è scontrata con il fuoco delle truppe di Assad, gli striscioni dei manifestanti, fin allora pacifici, hanno reclamato un appoggio internazionale. Quando l’esercito e i miliziani shabiha hanno cominciato le uccisioni di massa, gli oppositori hanno interpellato le coscienze del mondo chiedendo perché non si facesse per la Siria quel che era stato fatto per la Libia. Ma solo un terribile silenzio ha risposto a questo appello. Di modo che, col trascorrere dei mesi, i rivoluzionari sono giunti a denunciare prima l’indifferenza, poi l’abbandono, poi il tradimento delle nazioni e, infine, la loro complicità , perlomeno passiva, con il regime.
Fra coloro che rischiano quotidianamente la vita affrontando la mafia al potere a Damasco, si sta diffondendo l’idea — non importa se vera o falsa — che le potenze occidentali preferiscano, a conti fatti, una Siria abbandonata alla guerra civile e al caos, e smembrata. Non meravigliamoci se, in tali condizioni, sull’onda dell’amarezza generata dall’inqualificabile inerzia dei grandi Paesi democratici, nel clima di disperazione che regna a Aleppo, Homs e Deraa, l’islamismo radicale, sotto tutte le sue forme, e talvolta le più terribili, non smette di guadagnar terreno.
La Siria era una nazione pluriconfessionale, dove l’Islam sunnita moderato maggioritario si adattava alle minoranze: cristiana, alauita o sciita. Da quando il suo potere è stato contestato, Bashar Assad ha cercato di persuadere l’opinione pubblica siriana, e la comunità  internazionale, che egli doveva far fronte a bande di criminali e terroristi islamici. Per essere più convincente, ha fatto uscire dalle prigioni i folli di Dio siriani che aveva arrestato al loro ritorno dalla jihad in Iraq. E presso gli occidentali, questa propaganda ha avuto una certo eco e ha fornito, se pur ce ne fosse bisogno, un alibi supplementare all’immobilismo.
Diciotto mesi e quarantamila morti più tardi, la profezia si è in parte autorealizzata. Sì, ci sono sempre più estremisti nell’opposizione siriana. Sì, ci sono jihadisti stranieri che vengono a rafforzare le fila dei combattenti, sempre più numerosi, ogni settimana e ogni giorno che passa. Sì, alcune migliaia di fanatici, nazionali o giunti dall’estero, commettono attentati suicidi che, qui come altrove, occorre condannare con fermezza. Ancora sì, gli insorti si rivolgono al fondamentalismo tanto più volentieri in quanto solo i Paesi sotto regime islamico forniscono loro un aiuto reale: che esso sia umanitario, finanziario o militare.
Ma no, mille volte no, non possiamo fermarci davanti a questa constatazione desolata. No, mille volte no, non dobbiamo disinteressarci della sofferenza dei civili siriani, né rinunciare a sostenere le correnti democratiche che lottano nel Paese. I governi occidentali rifiutano di consegnare armi alla rivoluzione con il pretesto che potrebbero cadere in cattive mani? Che prestino piuttosto l’orecchio ai capi delle milizie ribelli che sperano di ricevere equipaggiamenti, non solo per combattere l’esercito di Assad, ma per costruire una forza alternativa ai fondamentalisti. Che ascoltino il Consiglio nazionale siriano, che vuole la caduta dei gangster al potere, ma chiede armamenti per proteggere poi la propria comunità  dal totalitarismo islamico. Non hanno nemmeno ascoltato il messaggio dei rivoluzionari curdi, che temono il nazionalismo islamico e rifiutano la minaccia di egemonia che il Pkk e il suo alleato siriano, il Pyd, fanno incombere. È a noi — Europa, Stati Uniti — che si rivolgono tutti questi nemici di Bashar Assad e dei fanatici islamici…
Essendo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite paralizzato dai veti russo e cinese, qualsiasi altra alleanza è giustificata per fermare i fiumi di sangue che scorrono nelle città  siriane. Putin non ha aspettato alcun permesso da parte di una qualsiasi organizzazione per fornire un appoggio in armi e munizioni al suo protetto siriano. Il quale riceve anche un sostegno finanziario dall’Iran e dall’Iraq, e uomini di Hezbollah in rinforzo. La situazione ricorda quella della Spagna del 1936, quando le democrazie si disonoravano per la loro neutralità , mentre Mussolini e Hitler, da parte loro, portavano aiuti massicci ai golpisti di Franco. Così, qualsiasi richiesta di legittimità  alternativa è da accogliere se appena può aiutare a salvare quel che può essere salvato degli obiettivi iniziali (caduta della dittatura mafiosa, dignità , libertà …) di questa rivoluzione siriana oggi annegata nel sangue. Invece, la Nato, l’Unione Europea, la Francia, gli Stati Uniti si sforzano di ripetere che nessun intervento militare è possibile. Salvo se… Sì, è forse la cosa più ripugnante: nessun intervento è pensabile, ci dicono, salvo se il regime utilizza le sue armi chimiche. In altri termini, significa accordargli il diritto di uccidere con tutti gli altri mezzi. Significa tracciare una linea rossa che implicitamente consente migliaia, forse decine di migliaia, di vittime supplementari. Significa sottintendere che la comunità  internazionale avrebbe motivo di muoversi solo nel caso in cui il massacro dei siriani si trasformasse in caos regionale. Ma significa anche, si faccia attenzione, convenire implicitamente che un intervento, sul piano tecnico, militare, è possibile. E allora?
Allora, è urgente impedire che lo scenario del peggio si realizzi. È urgente rompere il meccanismo infernale che si sta installando. È urgente distruggere la trappola che un giorno non lascerà  altra scelta alle donne e agli uomini siriani se non quella fra due dittature… Basta con le scappatoie! Basta con la pusillanimità ! L’avvenire democratico della Siria esige un aiuto decisivo. Che sia neutralizzando l’aviazione che bombarda città  e villaggi, fornendo armi idonee alle correnti democratiche fra i combattenti, portando a chi fra gli alauiti vuole sbarazzarsi del clan Assad, rinforzi e speranza. È proprio quando si ritiene, come noi riteniamo, che la dittatura degli Assad sia — a ragione — condannata e che il fondamentalismo islamico costituisca un pericolo notevole, che si impone il dovere di proteggere tutte le componenti, tutte le minoranze costitutive del popolo siriano.
La posta in gioco va oltre la Siria. Va anche oltre il Medio Oriente. Si tratta di ridare alle nazioni democratiche un volto diverso da quello della debolezza: un volto umano, solidale, generoso. E si tratta di rompere, come fu fatto in Libia, l’ingranaggio ignobile e fatale del cosiddetto «scontro delle civiltà ». Di aiutare la caduta della tirannia attuale senza tuttavia incoraggiare gli aspiranti tiranni dell’islamismo radicale: è quanto si aspettano da noi i democratici della Siria e, al di là  della Siria, del mondo. Non intervenire, mentre si accelera il massacro degli innocenti, significa invece rivolgere il peggiore dei messaggi e rafforzare, in particolare, il sentimento antioccidentale. L’onore, l’umanità , ma anche l’interesse politico, impongono oggi impegno e fermezza.
Jacques Bérès, chirurgo di guerra
Mario Bettati, professore emerito
di Diritto internazionale
André Glucksmann, filosofo
Bernard Kouchner, ex ministro
Bernard-Henri Lévy, filosofo
(traduzione di Daniela Maggioni)


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