Contro la vita sconfitta

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Non so chi era Mounir, ma posso immaginare che era uguale a tutte le altre 66 mila persone che popolano i 206 istituti italiani, giovane come lo sono l’80 per cento dei detenuti, forse in cella per reati connessi alla droga come la metà  dei carcerati, sicuramente senza lavoro come la quasi totalità  dei 60 mila e passa detenuti, infine straniero come lo sono un terzo di tutta la popolazione carceraria. Uno che non ce l’ha fatta e che come i tanti altri morti suicidi in carcere ci continua a mostrare l’orrore della vita sconfitta, ci fa sentire l’Urlo di Edward Munch, l’urlo di chi è solo nel mondo, di chi non vede più l’altro, l’amico, il fratello, l’uomo.

E neppure vede più se stesso. L’urlo che cade nel silenzio, perché nessuno sta a sentire o al massimo fa subito tacere quella massima richiesta di aiuto dando la colpa alla depressione, convincendosi che a monte di quel gesto estremo ci sono problemi psichici, che era debole, che si sarebbe ucciso anche fuori dal carcere di fronte alla prima difficoltà , che ci sono concause. Magari fosse così, ma così non è. Perché davvero quello che ci mostrano Mounir e gli altri 736 detenuti suicidi non è la follia individuale (e comunque non si capisce perché debbano essere rinchiusi in carcere), ma la follia esteriore, la follia del mondo ordinato, la follia del nostro tempo. Ci mostrano la vita sconfitta.

Come me l’ha mostrata un mese fa D.S., detenuto che conosco bene perché scrive per Voci di dentro: dopo due anni di carcere per una serie di truffe, con un fine pena molto lontano negli anni, ha inghiottito 150 pillole tra Tavor e altri farmaci. Una scorpacciata di tranquillanti per farla finita una volta per tutte, per non tirare a campare – mi ha scritto – per smettere di campare in una cella, in un posto di m… , senza futuro. D.S. per fortuna si è salvato, e dopo due giorni di incoscienza, ha riaperto gli occhi. E ha aperto anche i miei se già  non lo erano. Lì dentro, chiusi 24 ore su 24, stretti in celle, condannati a star male per riparare a un male che hanno fatto, alla gran parte dei detenuti vengono tolte le speranze di un cambiamento, vengono vietati sogni e desideri di riscatto.

Ed è davvero un mare in burrasca quello delle carceri, un mare in tempesta dove la pena, così come ora è, non ha alcun senso rieducativo, è inutilmente coercitiva e mortificante, mette insieme malati e sani, distrugge dignità , e toglie vite umane. E i tanti suicidi o per fortuna tentati suicidi non fanno altro che mostrare la realtà  carceraria per quello che è: in troppi casi un posto sbagliato, una costruzione antiquata e barbara.

A D.S. giorni fa, ho scritto una lettera, che chiudeva così:

“[…] ma, caro amico, arrendersi non serve, tirare la spugna ancora meno. Siamo in ballo e bisogna ballare perché noi sappiamo bene quello che va fatto affinché la vita, anche quella dentro una cella, non sia un tirare a campare e affinché siano altri e non noi gli uomini della resa, affinché siano quelli che pensano ‘fatti la galera’ coloro che devono rimangiarsi le loro convinzioni…[…] dammi una mano a vincere, per me, per te, per tutte quelle persone che spesso finiscono in carcere, come ha sostenuto il cardinale Martini, per ignoranza, mancanza di realismo, irresponsabilità , asocialità , istinti negativi, condizioni di abbandono, cattiva educazione. Insomma non sempre per loro colpa”.

L’altro giorno quando sono venuto a trovarti ti ho lasciato una frase, “un abbraccio” ho scritto sulla copertina di Voci di dentro. L’ho lasciata a un agente che era di guardia alla tua stanza d’ospedale. Una brava persona. Anche per lui, per gente come lui, non si deve mollare”.

Contro la vita sconfitta.

* Giornalista, direttore di “Voci di dentro”


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