Dopo Formigoni, il diluvio
MILANO. Dice che due milioni di persone hanno votato contro di lui, per cui nessun problema se sotto il «suo» palazzo ci saranno alcune migliaia di persone. Problemi, invece, ce ne sono. Per tutti. Ieri sera a chiedere le dimissioni di Formigoni c’erano un migliaio di persone. Il più fiducioso ha inviato un messaggio, il sindaco Pisapia: «Dopo il diluvio un grande arcobaleno illuminerà la Lombardia». Sarà . Ad applaudire, bandiere di partito, ceto politico, e brandelli di società civile. Si tratta della più grande manifestazione attorno al palazzo della Regione, infiltrato dalla ‘ndrangheta. Dietro certe bandiere è impossibile condensare masse più consistenti. Desolante? Forse. Da non saper più da che parte cominciare, non solo per i partiti.
Del resto quando nel giro di due giorni crolla un sistema di potere lungo 17 anni in una regione come la Lombardia – quel palazzo circondato dai manifestanti è la terza assemblea elettiva d’Italia e governa 10 milioni di persone – grande è il disordine sotto il cielo. Ma non sempre la situazione è eccellente, come diceva Mao. La complicata partita che si sta giocando attorno al Palazzo della Regione dopo il voltafaccia della Lega è la somma di quattro debolezze. Di Formigoni, un uomo solo al comando che ormai ha poche carte da giocare, della Lega e del Pdl, che non possono permettersi di andare alle elezioni da soli e pregiudicare l’alleanza con una clamorosa sconfitta a pochi mesi dalle elezioni nazionali, e del centrosinistra che negli anni non è mai stato in grado nemmeno di immaginarsi come alternativa al formigonismo – figuriamoci in poche settimane. La verità è che nessuna forza è pronta ad affrontare il voto fra tre mesi.
Il Celeste oggi sembra avere una sola carta in mano per rimettere nell’angolo la Lega, e ritrovare una collocazione nel Pdl. Presentare le sue dimissioni per anticipare la data delle elezioni spiazzando la Lega che preferirebbe in aprile: «Una campagna di sei mesi è inaccettabile, mi muoverò per andare al voto nei tempi più stretti, tra 45-90 giorni» (se la Lega non cambia idea…). La minaccia è: nomino la nuova giunta con pochi assessori e la Lega indichi i suoi, poi cambiamo la legge elettorale per eliminare il privilegio del listino bloccato e poi ancora contiamoci subito nelle urne (vanno in questa direzione anche le dimissioni di ieri dei consiglieri regionali del Pdl). Formigoni potrebbe anche non candidarsi e per dimostrare che fa sul serio ha già salutato con favore l’ipotesi della candidatura dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini. Non è la mossa di uno che comanda il gioco come prima, ma adesso tocca ancora alla Lega decidere il da farsi. Tornare sui suoi passi – sembra impossibile – o rischiare tutto con un’elezione che potrebbe essere un bagno di sangue; per il partito di Maroni e per il centrodestra, che rischia una disfatta epocale contro l’avversario meno attrezzato che si possa immaginare. La strategia di Formigoni per ora funziona. Lo si capisce dalle affermazioni di Matteo Salvini, che prima si è detto pronto ad andare subito alle elezioni e poi dice di non discutere «la buona amministrazione di questi anni» e che «non abbiamo mai detto che usciremo dalla maggioranza, quindi vedremo se e con quanti uomini entrare». Tutto chiaro? Per niente.
Il centrosinistra, che si è dovuto svegliare da un letargo scandaloso (sono ancora lì a chiedere a Penati di dimettersi da consigliere regionale), parla di balletto vergognoso e si organizza in disordine sparso. Sono riunioni su riunioni al «vertice», con il terrore che da qualche parte si materializzi una candidatura fuori controllo capace di monopolizzare la scena. Trovare un accordo sarà dura, ogni scelta dovrà tenere conto del contesto nazionale – Casini ha già detto che la coalizione non dovrà comprendere chi contrasta il governo Monti. Nel frattempo, da mesi, in casa Pd, si intravedono presunte candidature per le primarie. Si parla di Roberto Cornelli, segretario cittadino, di Maurizio Martina, segretario regionale, dell’ex rottamatore Pippo Civati… Al centro giganteggia Bruno Tabacci. Fuori dai partiti si è appena autocandidata Alessandra Kustermann, ginecologa conosciuta della clinica Mangiagalli, primo nome pesante della borghesia che conta. E poi Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, l’avvocato ucciso dalla mafia nel 1979, da sempre indicato come uno dei candidati più credibili. A sinistra, c’è un gran lavorare anche per allargare la coalizione al Prc, mentre è già spuntata l’autocandidatura di Giulio Cavalli (Sel), che da sette anni vive sotto scorta perché minacciato dalla ‘ndrangheta.
Tutto ciò interessa gli elettori?
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