ILRUMORE DELMALE

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Gitta Sereny, morta all’età  di 91 anni, era una delle più grandi giornaliste del XX secolo, autrice di numerosi libri di eccezionale valore, tutti che si sforzano di far luce su una domanda centrale, ossessionante: da dove nascono l’odio, la violenza, il crimine? Se poniamo, come fa lei, che questi comportamenti sono l’incarnazione del male, e poniamo anche che non esistono due sottospecie di esseri umani, i mostri e i normali, come si spiega il fatto che qualcuno possa commettere atti tanto distruttivi? La Sereny era convinta che fosse possibile comprendere anche i crimini più atroci ricostruendo il racconto di vita del loro autore, la serie di interazioni con altre persone, con le circostanze in cui si è trovato catapultato: la sua identità  coincide, semplicemente, con la sua storia. Chi vuole impedire che i crimini si ripetano deve cercare di comprenderli.
Gitta Sereny nasce a Vienna nel 1921 in una famiglia di artisti, studia in Inghilterra, nel 1938 si ritrova a Parigi, sogna di fare l’attrice. Quando scoppia la guerra, comincia a lavorare per un’organizzazione di beneficenza che si occupa di bambini abbandonati o di fuggitivi. Nel 1941 deve scappare, riesce ad attraversare la frontiera con la Spagna e si imbarca per gli Stati Uniti.
Una volta tornata in Europa, all’inizio del 1945, comincia a lavorare per l’Unrra, l’organismo delle Nazioni Unite incaricato di aiutare i profughi di guerra e gli sfollati. I due anni successivi saranno decisivi per scoprire la sua vocazione.
Gitta viene inviata nella Germania occupata dagli eserciti occidentali, con l’incarico di prendersi cura dei bambini strappati al loro luogo di origine. È in questo frangente che scopre un crimine insospettato. All’indomani dell’occupazione della Polonia, le autorità  tedesche avevano cominciato a cercare bambini di aspetto “ariano” (biondi con gli occhi azzurri) per prenderli e trasferirli in Germania, dove quelli più conformi al modello razziale erano stati dati in adozione a delle famiglie, mentre gli altri erano stati mandati a lavorare in condizioni di schiavitù. Il numero di “bambini rubati” in Polonia è stimato in 200mila unità , a cui vanno aggiunti quelli rastrellati in Ucraina e in altri posti. Il crimine esige una riparazione, ma quale? I bambini hanno subito un primo choc quando, all’età  di 3, 4, 5 anni, sono stati strappati ai loro genitori, alla loro lingua, al loro Paese; a guerra finita, a 8, 9, 10 anni di età , vengono strappati alle loro famiglie adottive, dove sono circondati d’amore, e rispediti in un Paese che non conoscono, per vivere con adulti di cui non si ricordano, dove si parla una lingua che non comprendono. A complicare la situazione concorre una valutazione politica: dal momento che la guerra calda ha lasciato il posto alla guerra fredda, non sarebbe nell’interesse dei bambini mandarli nel paradiso occidentale piuttosto che nell’inferno comunista? Non sarebbe meglio per loro una terza famiglia al di là  dell’Atlantico? Alcuni di questi bambini, come immaginabile, sviluppano comportamenti asociali e un’inclinazione alla violenza.
Dopo aver lasciato l’Unrra, due anni dopo, Gitta Sereny dedicherà  la sua esistenza a cercare di comprendere due fatti di enorme rilevanza: la violenza che ha condotto ai crimini nazisti, la violenza inflitta ai bambini, ma a volte anche la violenza esercitata dai bambini. Diventata giornalista e trasferitasi a Londra, scrive la sua prima inchiesta su Mary Bell, una ragazzina di undici anni che nel 1968, insieme a una complice, uccide due bambini di 3 e 4 anni. Quel crimine inorridisce l’Inghilterra: com’è possibile commettere un atto tanto odioso? La Sereny mette a punto il suo metodo: interroga tutte le persone coinvolte e mette insieme una massa di informazioni accurata (The Case of Mary Bell, 1972).
Venticinque anni dopo, quando Mary è uscita di prigione e vive sotto una nuova identità , torna all’assalto interrogando la ragazzina diventata adulta, approfondendo ulteriormente l’esame di atti e circostanze apparentemente banali che hanno trasformato una bambina in un’assassina. Oggi il suo libro è una pietra miliare nello studio della criminalità  infantile (Grida dal silenzio, 1999).
Lo stesso bisogno di risalire alle sorgenti del male conduce Gitta Sereny in un’altra direzione. Nel 1970 entra in contatto con Franz Stangl, l’ex comandante di Treblinka, il più grande campo di sterminio tedesco. Stangl è stato condannato all’ergastolo, ma accetta di rispondere alle domande della giornalista. Poco tempo dopo i colloqui con lei, protrattisi complessivamente per settanta ore, muore; la Sereny prosegue l’inchiesta con i suoi familiari, le persone che lo conoscevano bene e le vittime sopravvissute. Il risultato è un libro straordinario, In quelle tenebre (1994), che permette di avvicinarsi all’enigma: come ha potuto un individuo normale commettere un crimine del genere? E se non lo escludiamo dal genere umano, come faceva lui per le sue vittime, che conclusioni dobbiamo trarre sulla natura di questo genere umano? Vent’anni più tardi, la Sereny ricomincia questa ricerca con In lotta con la verità  (2009), un libro su Albert Speer, architetto e ministro prediletto di Hitler, spirito brillante, insediato all’altro estremo della catena dello sterminio: la Sereny lo sottopone a un interrogatorio serrato, che acclara la sua complicità . Una terza opera, Germania: il trauma di una nazione (2002), riunisce le altre sue inchieste sui crimini nazisti, accompagnandole con un commento autobiografico.
Qualcuno si è chiesto se Gitta Sereny non si sia avvicinata troppo ai personaggi oggetto dei suoi libri, Mary Bell, Stangl, Speer, se non li abbia “umanizzati” troppo. Quel che è certo è che non li esclude dalla cerchia dell’umanità  e che accettando di ascoltarli, e poi di trascrivere le loro parole, costruisce un quadro comune a loro e a noi. Chi sposa la formula della SS incontrata da Primo Levi ad Auschwitz, il “Qui non c’è perché”, rischia di non apprezzare le sue opere. Per giudicare e condannare gli individui, l’empatia non è indispensabile, anzi può essere d’intralcio. Ma non possiamo farne a meno se lo scopo della nostra ricerca è comprendere le ragioni oscure dei nostri atti, per quanto odiosi siano.
(Traduzione di Fabio Galimberti)


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