Dhaka, concerie tossiche

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I ricercatori di Hrw documentano una situazione infernale, sia per l’ambiente – è arcinoto che la conciatura e tintura delle pelli sia un’attività  inquinante, e qui non c’è alcun controllo sui reflui – sia anche e in primo luogo per chi ci lavora. Si pensi: in quel distretto, Hazaribagh, si concentra il 90% delle concerie del paese, con circa 15mila lavoratori. E’ un’industria importante: nell’ultimo decennio il Bangladesh ha esportato pelli per una media di 41 milioni di dollari all’anno; dal giugno 2011 al giugno scorso ha esportato circa 663 milioni di pelli e prodotti di pelle (incluse scarpe) in una 70ina di paesi al mondo, dalla Cina agli Stati uniti passando per l’Europa, Italia inclusa.
Human Rights Watch parla di una «crisi della sicurezza e della salute» tra i lavoratori delle concerie, donne e uomini, che vivono in poveri slum vicino alle concerie stesse. Tra i lavoratori sono diffuse malattie della pelle e respiratorie dovute all’esposizione ai prodotti chimici, e sono frequenti anche i casi di arti amputati a causa di incidenti sul lavoro. Tra gli abitanti degli slum di Hazaribagh si ritrovano le stesse malattie della pelle, problemi respiratori, febbri e diarrea, provocati dall’inquinamento che le concerie diffondono del terreno, aria e acqua. I ricercatori di Hrw citano il caso di Jahaj, 17 anni, che lavora in una conceria da quando ne aveva 12: soffre di asma, ha bruciature da acido sulla pelle, allergie e pruriti. Dice che la cosa peggiore è lavorare nelle vasche dove si immergono le pelli in sostanze chimiche per ammorbidirle: gli bruciano la pelle. «Ma devo pur mangiare», aggiunge. I lavoratori lamentano che i responsabili delle concerie non gli danno equipaggiature né istruzioni per proteggersi dalle sostanze chimiche. I manager negano permessi per chi si ammala, tantomeno risarcimenti. Anche donne e bambini lavorano spesso maneggiando sostanze chimiche senza grandi protezioni – pagati meno degli uomini adulti, però.
Tutto questo, spiegano i ricercatori di Hrw, è in contravvenzione con le leggi dello stesso Bangladesh. Si aggiunga che ogni giorno a Hazaribagh 21mila metricubi di scarichi liquidi dalle officine dei conciatori vanno nelle fognature a cielo aperto di Hazaribagh e raggiungono il fiume – la Buriganga, uno dei bracci laterali formati dal Gange nel suo immenso delta. In quei reflui ci sono, tra l’altro, ono brandelli di carne animale, acido solforico, cromo, piombo. Funzionari governativi hanno confermato a Human Rights Watch che si tratta di concentrazioni tossiche parecchie migliaia di volte superiori ai limiti di legge, ma non una delle concerie del distretto ha impianti di depurazione. E questo nonostante ripetuti ordini dell’Alta Corte, che fin dal 2001 ha ordinato di ripulire le concerie. Ma i funzionari pubblici ammettono tranquillamente: le norme ambientali e del lavoro qui non sono applicate («non abbiamo fatto nulla per Hazaribagh», dice un funzionario citato nel rapporto). Alludono a un tacito accordo tra gli industriali, il ministero dell’ambiente e l’ispettorato del lavoro: che chiudono gli occhi sulle condizioni del lavoratori, in nome dell’export nazionale.


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