Le referenze dei faccendieri “Dobbiamo dargli i soldi sono uomini di Formigoni”
MILANO— Mettere insieme i fatti certi, e poi distinguere ciò che è politico e ciò che è penale. Lo si può fare anche a proposito di Roberto Formigoni. Uno capace sia di smentirsi più volte, sia di pronunciare frasi come: «La sentenza Daccò», e cioè i dieci anni dati per bancarotta a quello che gli pagava le barche, le cene, i viaggi, «è una mia grande vittoria personale». E perché lo sarebbe? «Dopo un anno di campagna mediatica i magistrati hanno detto che Regione Lombardia non ha nulla a che fare con il fallimento del San Raffaele… ». Ma è proprio così?
LE SPESE DEL PIRELLONE
La Regione Lombardia riserva un terzo dei fondi per la sanità agli ospedali privati. Era stato fatto credere ai cittadini che l’ospedale San Raffaele e la Fondazione Maugeri fossero due «eccellenze». E su queste piovevano centinaia di milioni di euro l’anno di fondi regionali. Alcuni automatici, con i rimborsi per i ricoveri, altri discrezionali, per la sperimentazione.
IL FALLIMENTO
Il crac del San Raffaele nasce da debiti che si aggiravano sul miliardo e mezzo di euro. Uno di quelli che «svuotava» le casse dell’ospedale
di don Luigi Verzè era Pierangelo Daccò. Testimonianze, analisi dei conti, rogatorie hanno permesso ai detective di inquadrare Daccò con il ciellino Antonio Simone, entrambi impegnati nell’analogo svuotamento ai danni della Fondazione Maugeri. Il tandem ha incamerato — fatto certo — 80 milioni di euro. Daccò, sui rimborsi che arrivavano dalla Regione, chiedeva e otteneva percentuali — fatto certo — del 25 e del 12,5 per cento.
LE PORTE APERTE
I due faccendieri «aprivano le porte» per le leggi utili e per accelerare i rimborsi. Frequentavano abitualmente il palazzo della Regione: entravano e uscivano senza problemi. L’agenda dell’autista di Daccò, Franco Cernigliaro, è ricchissima di riferimenti a Formigoni, al suo coinquilino Alberto Perego, a Carlo Lucchina, direttore della sanità in Lombardia. E le testimonianze sul rapporto Daccò-Simone-Formigoni provengono dagli ambienti più diversi. Vediamone qualcuna.
IL COSTRUTTORE GIAMMARCHI
«Ho visto Daccò — spiega il costruttore che ha innalzato i nuovi padiglioni del san Raffaele — per la prima volta circa tre anni fa al San Raffaele. Si tratta di un uomo
taciturno (…) si intratteneva spesso con Mario Cal (il braccio destro di Verzè, poi morto suicida, ndr) e con la segretaria Stefania Galli. Donati (security manager, ndr) mi disse che Daccò era l’uomo di Formigoni che gestiva i soldi di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere. La stessa cosa, e ripetutamente, mi è stata riferita da Cal, il quale non faceva mistero del fatto che Daccò fosse «l’uomo di Formigoni e di Comunione e Liberazione» (…) Mario mi diceva che doveva dare i soldi a
Daccò in quanto “uomo di Formigoni”. Più volte gli ho chiesto quale fosse il vantaggio e lui diceva che doveva darglieli e basta».
LA SEGRETERIA E IL FUNZIONARIO
Stefania Galli, segretaria di Cal, ha ricordato alla perfezione davanti ai magistrati quello che diceva il suo capo «Io sono l’esecutore di Verzè, come Daccò lo è per Formigoni ». E Renato Botti, ex funzionario regionale, spiega che «Daccò si presentava come referente di Formigoni, Abelli e Borsani,
sia pure senza citarli, ma in forza del rapporto stretto che aveva con loro e che a me era ben noto». Lo stesso dice Costantino Passerino, della Fondazione Maugeri: «Era evidente che il punto di riferimento di Daccò fosse il presidente Formigoni e che quando c’erano problematiche importanti da risolvere Daccò si rivolgeva direttamente a Formigoni». Lo chiamavano«il Pres».
I “NON RICORDO”
Se ne potrebbero aggiungere altre, ma se questo è lo scenario, all’inizio dello scandalo Formigoni sembrava non conoscere Daccò: «Mi pare che sia un consulente nel settore della Sanità ». E nemmeno dove avesse passato i capidanno lussuosi: «Devo consultare le agende».
IL BANCOMAT
Invece, i detective considerano «l’enorme flusso di denaro illecitamente ricevuto da Pierangelo Daccò e Antonio Simone» e il contesto in cui si muovono. Quindi li accusano d’associazione per delinquere e corruzione e di costituire «una sorta di “cassaforte” e, all’occorrenza, di un “bancomat”». A beneficio di chi? Formigoni e il suo amico Alberto Perego sono al centro di molti soldi che provengono dal tandem. Contiamoli.
Tra la villa in Sardegna (ceduta ad un prezzo di 3 milioni di euro rispetto ad una stima prudenziale di 4,3 milioni); l’acquisto e il mantenimento d’imbarcazioni di lusso, valutato in 3,7 milioni; le ormai famosissime vacanze dal 2006 al 2001 per un costo minimo di 800 mila euro; un milione e passa per eventi, cene, contributi elettorali, Formigoni — questo è provato — ha dunque ricevuto «utilità ». Ma non ha saputo/potuto dimostrare di averle rimborsate.
L’INVITO A COMPARIRE
I magistrati hanno inviato a Formigoni un invito a comparire. Non hanno mai ipotizzato, come sostiene Formigoni, un processo con rito immediato. Hanno solo allungato in questo modo i termini di prescrizione se ci sarà , come sembra ovvio, la richiesta di rinvio a giudizio. A questo punto, se pure
si decide di ignorare come proseguirà la vicenda giudiziaria, possibile che Formigoni non scorga una sua precisa responsabilità politica? Come fa a non vedere nel filo rosso Formigoni-Daccò-Simone un “sistema”? Con le cliniche lombarde che venivano generosamente foraggiate dalla mano pubblica e costantemente dissanguate dalla mano avida dei suoi cari, vecchi, buoni amici.
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