Nel villaggio ferito dalle bombe di Assad la Turchia si scopre frontiera di guerra

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AKCAKALE (Confine turco-siriano) — I bambini sono tornati a giocare sul marciapiedi dove le tre sorelline Zainab, Mariam e Shaigul, assieme alla loro mamma, Zeliah e alla sua amica, Gulshan, sono state dilaniate da un colpo di mortaio sparato dall’esercito siriano. Nella loro incontenibile vitalità , i bambini sono riusciti ad assorbire la tragedia nei loro giochi. Mohammed spalanca la mano davanti agli obbiettivi dei fotografi per mostrare, orgoglioso, 4 o 5 schegge raccattate attorno al cratere dell’esplosione e Mustafà  si arrampica sulla grata contorta del cancello per mostrare a tutti dove, quel mercoledì pomeriggio, è stato sbattuto dall’onda d’urto.
È come se Akcakale, una cittadina di 40 mila abitanti distesa tra biancheggianti campi di cotone, a ridosso del confine con la Siria, si sia spaccata in due. Metà  è viva, illuminata, fragrante di odori e rutilante di colori; l’altra metà , quella che sfiora la frontiera e, con la sua periferia, incorpora il valico di Tel al Abjad, è una retrovia deserta, percorsa soltanto da mezzi militari, sorvegliata dagli elicotteri che le ronzano sopra, mentre oltre i recinti delle installazioni militari i carri armati, interrati, hanno i canoni rivolti verso la Siria. Centinaia di famiglie, ci dicono, hanno deciso di abbandonare le loro case per fare ritorno, almeno per ora, nei villaggi d’origine.
Questa è lo sfondo, visibile, del confronto esploso tra Ankara e Damasco, dopo il «triste incidente », parola del governo siriano, di mercoledì. Ma l’incidente
si è nuovamente ripetuto, ieri, a sud, nella regione di Antiochia (Atai) dove l’artiglieria turca ha risposto al fuoco dopo che un altro colpo di mortaio siriano è esploso vicino ad un’azienda agricola. Appena poche ore prima, il premier Erdogan aveva detto chiaramente di preparasi al peggio, ammonendo Damasco a non sottovalutare «la capacità  di deterrenza» della Turchia. È vero che qui a Akcakale dall’alba di giovedì non si spara più, ma per capire come questa specie di tregua armata sia appesa ad un filo, basta avvicinarsi al valico di Tel al Abjad. Su quella che appena poche settimane fa era la dogana siriana sventola il tricolore degli insorti, azzurro, bianco e nero, che fu anche la bandiera della Repubblica prima che nel 1970 salisse al potere Hafez el Assad, il padre di Bashar, l’attuale presidente.
Metà  dell’edificio è sventrato dalle cannonate dell’esercito regolare. Non si vede anima viva. Solo quel lento sventolio. Ma i ribelli sono asserragliati all’interno e per il regime di Damasco, questa palese riduzione della propria sovranità  territoriale, che si ripete in altri due valichi dei sei in cui si articola la lunga (900 chilometri) frontiera con la Turchia, è insopportabile. Anche perché la scelta di campo del governo Erdogan di schierarsi a favore della rivolta garantisce ai ribelli di poter contare, nel caso che i soldati siriani muovano per riconquistare il valico, su una facile via di fuga.
Il colpo di mortaio di mercoledì ha azzerato qualsiasi considerazione, se mai da queste parti ne ha avuta, nei confronti del raìs di Damasco. Le tende del
lutto della famiglia Timucin, quella decimata dalla bomba, sono state innalzate a Bolatlar, 1400 abitanti, a una decina di chilometri da Akcakale. Le donne, che nascondono le capigliature sotto foulard dello stesso colore viola, sono inavvicinabili. Gli uomini si riuniscono a un centinaio di metri. Sulla soglia del capannone bianco il marito di Zeliah e padre delle tre bambine uccise, Omar, di 43 anni, riceve le condoglianze con accanto il figlio Ibrahim, 16 anni, sopravvissuto assieme ad altre tre sorelle rimaste ferite. Sotto il tendone, dove si entra a piedi scalzi come in una moschea. gli ospiti si raccolgono in piccoli gruppi. In un angolo, un vassoio colmo di sigarette, le teiere, le caffettiere, le ciotole con lo zucchero.
Omar, un contadino di 43 anni, sembra rifiutare sentimenti d’odio, o desideri di vendetta. «Queste cose vengono da dio e a dio deve rendere conto chi le commette», dice ad occhi asciutti. Il muktar del villaggio, Mustafà  Tashtan, consente. «Noi non vogliamo vendette. Abbiamo fiducia nella fermezza del nostro governo», aggiunge col tono ufficiale del sindaco. Ma appena ci allontaniamo di qualche metro dalla gruppo che circonda i parenti stretti, un giovane ci chiede in un buon inglese: «Ma voi, in Italia, accettereste che un paese vicino spari e ammazzi la vostra gente?». «Bashar? — dice lo sceicco Taher Ozgut, arrivato per testimoniare la sua solidarietà  â€” E’ un assassino che non merita pietà », e accompagna le sue parole con il gesto inequivocabile di una lama che attraversa la gola. E tuttavia le cose non sono così semplici come vorrebbe far apparire l’anziano capo tribù.
La guerra civile siriana minaccia di ripercuotersi seriamente sul complicato caleidoscopio di minoranze su cui si regge la Turchia. E questo non può non indurre Ankara a qualche cautela. Akcakale, ad esempio, è un città  mista arabo-curda. Siamo sulla pianura pedemontana del Kurdistan turco cioè alle pendici del vulcano separatista curdo. Ora, i curdi, oltre che in Iraq, in Iran e in Turchia, sono presenti e numerosi anche in Siria, e lì, in cambio di alcune concessioni sul piano dell’autonomia, hanno scelto di non schierarsi contro il regime. Ecco che i curdi turchi cominciano a sentirsi a disagio, stretti tra l’inevitabile solidarietà  con i loro fratelli che vivono nel Kurdistan siriano, l’“invasione” degli arabi in fuga dalla Siria e l’antica diffidenza, se non ostilità , verso il governo di Ankara.


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