Stevenson, il male in azione sotto il segno del doppio
L’apertura verso l’Altro, come verso il proprio doppio, in senso artaudiano, è un tendere verso la nostra maschera, il nostro «sostituto» – un Altro che negandosi si sottrae al confronto, ma solo allo scopo di sorprenderci violentemente alle spalle e, con crudeltà teatrale, sacrificarci alla sua stessa negazione. Per Robert Louis Stevenson – che morì solo due anni prima della venuta al mondo di Antonin Artaud – il doppio avrebbe una articolazione psicoanalitica di tipo quasi schizofrenico, come dimostrano alcune letture forse eccessivamente psicologizzanti del suo Jekyll e Hyde. In un’altra grande opera dello scozzese, The Master of Ballantrae, il doppio si fa carne e sangue, dialogando col sacrificio in un gioco diabolico tra due fratelli votati alla morte e alla rovina. Nel loro contrasto fatale, l’atroce frizione del dualismo trova giustificazione proprio in quanto scissione, sdoppiamento, frattura di una stessa natura, perversa e santa al tempo stesso.
Il libro, che in Italia ha visto svariate traduzioni, esce ora di nuovo per l’editore Nutrimenti, nella traduzione di Simone Barillari, e con la riproduzione delle pregiate illustrazioni originali di William Brassey Hole (pp. 318, euro 18). Il romanzo viene a collocarsi nella collana Tusitala – con questo nome, che significa «narratore di storie», veniva chiamato Stevenson dagli indigeni samoani durante il soggiorno a Vailima, il villaggio a sud di Apia che ospitò lo scrittore nei suoi ultimi anni di vita. In molte delle traduzioni precedenti, ma non in tutte, il titolo del romanzo veniva reso con Il signore di Ballantrae, facendo così perdere l’allusione a quel titolo, Master, che nell’araldica scozzese indica indistintamente l’erede apparente o l’erede presunto di un titolo nobiliare. La traduzione di Barillari, in questo senso, mette le cose a posto, conservando nel titolo questo marker defamiliarizzante, ma che sicuramente consente di ricollocare culturalmente, e storicamente, le vicende nel loro luogo di origine. Si tratta di quella Scozia che Stevenson abbandonò di continuo nella sua vita, alla ricerca perenne di climi meno ostili alla sua salute notoriamente malferma.
Il libro stesso è in sé una metafora della fuga, del viaggio un po’ casuale, deciso come quando le scelte della sorte vengono affidate al volo di una monetina, un itinerario che si muove tra spazi lontani, divisi da tante tese di mare. È un viaggio che coinvolge la Scozia, la Francia, le America, e l’India. Incorpora tutti gli ingredienti tipici dei grandi romanzi d’avventura (i pirati, un tesoro poi interrato, duelli, spedizioni militari), ma mostra anche il profilo del romanzo storico, se è vero che la vicenda prende le mosse dal tentativo del young pretender Charles Edward, della dinastia degli Stuart, di avanzare militarmente le proprie pretese al trono ingaggiando uno scontro campale con Giorgio II, del casato degli Hannover. La sorte del Bonnie Prince Charlie – così veniva chiamato in ambiti giacobiti, ma anche in quell’Irlanda che tante speranze nutrì per le sue promesse di libertà – verrà tragicamente segnata dalla sconfitta di Culloden, nel 1746, vera e propria pietra tombale delle aspirazioni all’indipendenza della Scozia.
La Scozia del Master di Ballantrae non rappresenta soltanto la cornice degli eventi, ma vive nel respiro stesso della narrazione, attraverso un continuo procedere, altalenante e burrascoso, tramite sdoppiamenti che non sono più scissioni della personalità , ma vere e proprie fratture nel modo di agire e di stare al mondo. Ne è testimonianza, ad esempio, la scelta politica iniziale dei due fratelli James e Henry, più che consapevole e avallata peraltro dal padre, Lord Durrisdeer, di unirsi l’uno all’esercito di Prince Charles, e l’altro a quello di re Giorgio, allo scopo di proteggere i privilegi del proprio casato, qualunque fosse l’esito della rivoluzione degli Stuart.
Il libro, composto quando Stevenson stava per affacciarsi all’ultima fase della propria produzione letteraria, testimonia di una ossessione psicologica per il maligno. James, Master di Ballantrae, è una vera e propria versione moderna dello Iago shakespeariano. Il suo agire è guidato da un odio inspiegabile e non raccontato, da una tensione inesorabile verso la profondità oscura di un animo traviato e corrotto. Nel commentarne le gesta e il carattere, Stevenson ammette: «il Master è tutto quello che so del diavolo». Questa sua caratterizzazione, divenuta una ossessione per lo scrittore, almeno a giudicare dall’epistolario, lo connota nell’immaginario del lettore come una figura quasi immortale – così viene definito a più riprese dal fratello. La sua morte, nelle ultime pagine del libro, viene persino seguita da una sorta di beffarda, per quanto momentanea, resurrezione, un ultimo colpo di teatro che conduce alla dipartita anche lo sfortunato fratello. La perversione del Master, la cui ragione ultima di vita e di morte sembra essere la rovina sociale e finanziaria del fratello minore, è controbilanciata dalla capacità di sopportazione di quest’ultimo, che, ritenuto responsabile della scomparsa di James, porta sulle spalle per anni il fardello dell’ignominia e dell’odio di chi lo circonda. Si rifarà solo nella seconda parte del romanzo, quando troverà il coraggio di alzare la testa e fronteggiare il Master in un duello solo apparentemente all’ultimo sangue.
Con Il Master di Ballantrae Stevenson ci consegna uno studio sul male, su quel male che è nell’uomo, e che si rivela nella partitura premeditata e già scritta del nostro divenire. Un male che, da profondità non sondate e oscure dell’anima, si affaccia a gridare la limitazione del libero arbitrio, e a segnare l’incapacità dell’uomo di essere pienamente libero e artefice del proprio destino.
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