La sindrome del «ma anche»
Da un lato ha elogiato le Primavere arabe, dall’altro ha condannato l’intolleranza settaria. Ha ricordato all’Iran che il tempo per risolvere diplomaticamente la controversia nucleare sta scadendo e che gli Stati uniti son pronti a usare qualunque mezzo necessario per impedire che Tehran si doti di armi atomiche, ma dall’altro lato ha evitato di formulare un ultimatum come gli era stato chiesto dal governo israeliano.
Gli esempi possono continuare a lungo. Ma la constatazione inevitabile è che Obama ha cercato di estendere a tutto l’orbe terraqueo la strategia bipartisan e quella ricerca del consenso tra campi avversi che ha perseguito con tanta tenacia e tanto insuccesso sul fronte casalingo. Come sul suolo americano Obama sperava (e in cuor suo spera ancora) che repubblicani e democratici collaborino insieme, che capitalisti e lavoratori si rimbocchino le maniche per uscire dalla crisi, così ieri ha reiterato il suo auspicio per la collaborazione tra paesi sviluppati e Terzo mondo, e tra Occidente cristiano e mondo islamico. Ha minacciato la fermezza dell’azione militare, e insieme offerto il ramo d’olivo.
Né avrebbe potuto agire altrimenti, visto che non parlava solo ai rappresentanti dei 193 paesi aderenti all’Onu. Ieri il suo pubblico era molto più composito e contraddittorio. Si è rivolto a quel mondo islamico che nelle scorse settimane ha manifestato contro gli Stati uniti e ha assaltato le ambasciate Usa. Le sue parole sono state pesate dagli israeliani e dal governo di Netanyahu, che sono ossessionati dalla minaccia nucleare di Tehran e premono per lanciare un attacco preventivo contro le installazioni atomiche iraniane (possibilmente prima delle elezioni statunitensi). Ma, per ovvie ragioni, con altrettanta attenzione il suo discorso è stato passato al microscopio dagli iraniani.
Né la platea era solo internazionale: Obama ha dovuto difendere il proprio appoggio alle primavere arabe nei confronti dei diplomatici di professione del Dipartimento di Stato che 21 mesi fa l’avevano invitato a non buttare a mare il più fedele e antico alleato arabo nella regione, cioè l’egiziano Hosni Mubarak, per quanto fosse un dittatore corrotto. Oggi questi critici chiedono al presidente il conto per l’omicidio di uno dei loro (l’ambasciatore Chris Stevens) e per l’irrefrenabile ascesa dei partiti islamici in tutta l’area.
Insomma: ieri Obama ha usato la platea delle Nazioni unite per pronunciare un’arringa difensiva della propria politica estera dai suoi critici (anche all’interno della sua amministrazione) che l’hanno accusato di fallimento: come ha scritto il New York Times, non bastano discorsi audaci e ispirati a fare una politica estera e soprattutto farla vincere (il riferimento trasparente è al discorso del Cairo del 2009, che non ha diminuito l’ostilità araba nei confronti degli Usa).
Nella sua difesa Obama ha elencato (in modo assai selettivo) i progressi compiuti dalla democrazia nel mondo nei quattro anni del suo (si spera) primo mandato: «Lasciateci ricordare che questa è una stagione di progresso. Per la prima volta in decenni tunisini, egiziani e libici hanno votato per nuovi leaders in elezioni che erano credibili, competitive e regolari. Questo spirito democratico non è stato confinato al solo mondo arabo. Nell’ultimo anno abbiamo visto transizioni pacifiche di potere in Malawi e Senegal e un nuovo presidente in Somalia. In Birmania un presidente ha liberato prigionieri politici e ha aperto una società chiusa; una dissidente coraggiosa è stata eletta in parlamento; e il popolo spera in ulteriori riforme».
Nnaturalmente la platea più importante cui si rivolgeva ieri Obama è l’elettorato americano: gli Stati uniti sono in piena campagna presidenziale e ancora una volta il presidente uscente ha dovuto avazare da acrobata sulla corda sospesa, nel mostrare ai propri sostenitori liberal di essere un pacifista convinto che si è ritirato dall’Iraq e sta preparandosi ad abbandonare l’Afghanistan, e far vedere invece agli elettori indipendenti potenzialmente repubblicani di essere il garante della sicurezza nazionale, l’uomo che ha eliminato infine Osama bin Laden, il comandante supremo disposto a usare qualunque arma per mantenere la pax americana.
La verità è che, anche a causa della crisi economica, Obama si trova a gestire una fase d’indebolimento degli Stati uniti: solo 10 anni fa sarebbe stato impensabile che la Federal Reserve fosse impotente a far recedere la Germania dalla sua suicidaria linea di austerità .
E mai sarebbe potuto succedere che un presidente egiziano venisse a porre le sue condizioni, come invece ha fatto Mohamed Morsi. che in un’intervista al New York Times ha indicato i limiti che gli Usa devono rispettare nella regione.
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