Trent’anni di solitudine
BEIRUT. «Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti». Comincia così il lungo racconto scritto trent’anni fa da Robert Fisk, uno dei primi giornalisti stranieri ad entrare nei campi profughi di Sabra e Shatila dopo il massacro di 3mila palestinesi. Il lungo e penoso resoconto di un giro tra case e strade colme di cadaveri che Fisk e i suoi colleghi non dimenticheranno mai. Sono passati trent’anni da quella strage compiuta dal 16 al 18 settembre 1982 da miliziani cristiano-falangisti agli ordini (ma non solo) di Elie Hobeika, sotto gli occhi compiacenti delle truppe d’invasione israeliane. I ricordi sono ancora vivi per chi scampò a quella mattanza. Molto meno tra i libanesi immersi nella loro vita frenetica. Non ha più memoria invece la «comunità internazionale», pronta a processare e condannare vecchi e nuovi criminali di guerra, che ha scelto però di dimenticare esecutori e mandanti di quel massacro.
Uomini, donne, bambini. Civili inermi e non combattenti armati, uccisi in ogni modo possibile per vendicare la morte in un attentato, qualche giorno prima, del neo-eletto presidente della repubblica Bashir Gemayel, il falangista messo al potere dalle truppe di occupazione agli ordini di Ariel Sharon, a quel tempo ministro della difesa di Israele e stratega dell’Operazione militare «Pace in Galilea». Lo ricorda bene Aziza Khalidi che qualche giorno fa ha rivissuto nei racconti fatti ai giornalisti le varie fasi del massacro, dall’incredulità dei primi momenti all’orrore della scoperta del bagno di sangue. La donna a quel tempo era direttrice amministrativa dell’ospedale Gaza, costruito ai margini del campo di Shatila con fondi messi a disposizione dell’Olp. Quel trauma non lo ha mai superato. «E non ci riuscirò mai – ha detto – perché quei tre giorni (di massacro) hanno segnato la mia vita, fui costretta a lasciare il Libano per molti anni per riprendermi da ciò che accadde».
I dieci piani dell’«edificio» Gaza, come è conosciuto adesso, non accolgono più l’ospedale. Il palazzo fatiscente alloggia in minuscoli appartamenti a basso costo famiglie palestinesi, lavoratori siriani, migranti. In queste stanze trent’anni fa si tentò, spesso invano, di curare i superstiti della carneficina. C’era anche il dottor Ben Alofs, un medico olandese. «Il nostro obitorio si riempì di cadaveri in pochissimo tempo – ha scritto e raccontato in più di una occasione – Ricordo un bambino di 10 anni che fu trasportato agonizzante all’ospedale. Era vivo e aveva trascorso tutta la notte sotto i cadaveri dei suoi genitori, fratelli e sorelle. Gli assassini venivano aiutati dagli israeliani, che illuminavano i campi… Sabato mattina 18 settembre fummo arrestati dai miliziani falangisti che ci costrinsero ad abbandonare i feriti e a lasciare Sabra e Shatila. Passammo attraverso centinaia di donne, bambini ed uomini fatti a ciambella. Vedemmo corpi nelle strade e negli stretti vicoli… Appena prima di uscire dal campo un’immagine che resterà per sempre nella mia mente: un grosso cumulo di terra rossa da cui fuoriuscivano braccia e gambe. Fuori da Shatila vi era un bulldozer dell’esercito israeliano». Domenica 19 settembre, aggiunge Ben Alofs «tornai a Sabra e Shatila accompagnato da due giornalisti danesi e un olandese…Tutti eravamo atterriti dalla ferocia degli assassinii…Quando le piogge autunnali iniziarono a cadere, alla fine di novembre, le fogne congestionate inondarono Sabra e Shatila. La congestione era causata in parte dai cadaveri gettati nelle fogne».
Le premesse del massacro sono nell’imposizione di Israele e dei suoi alleati libanesi dell’allontanamento da Beirut e dal Libano di 15mila guerriglieri palestinesi e tutto il gruppo dirigente dell’Olp, i soli protettori dei profughi in un paese che già da sette anni viveva nella guerra civile. Fu perciò formata la Forza Multinazionale di interposizione (Fmi, con soldati statunitensi, francesi e italiani) incaricata nella seconda metà di agosto di garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’Olp e l’incolumità dei civili palestinesi rimasti. Il 23 agosto il parlamento libanese elesse all’ombra dei carri armati israeliani Beshir Gemayel a capo dello stato. La Fmi, invece di rimanere a presidio della zona musulmana (Ovest) di Beirut fino al ritiro delle truppe israeliane, si imbarcò in anticipo sulla data stabilita. Il 9 settembre partirono i marines Usa, l’11 i bersaglieri italiani e il 13 settembre salparono i francesi. I falangisti libanesi alleati di Israele intanto insistevano sulla presenza nei campi palestinesi di «terroristi», guerriglieri che a loro dire non avevano lasciato Beirut. Voci che si fecero più insistenti quando il 14 settembre una potente bomba esplose nella roccaforte delle Forze Libanesi, ad Ashrafieh, provocando 21 morti, tra i quali Beshir Gemayel. Subito dopo le truppe israeliane occuparono Beirut Ovest e circondarono i campi profughi.
Alle 5 di sera di giovedì 16 settembre iniziò «l’operazione di pulizia dai terroristi» con le belve agli ordini di Eli Hobeika che penetrarono nei campi palestinesi per avviare la strage di civili, ai quali poi si aggiunsero i libanesi dell’Esercito mercenario del Sud del Libano, alleato di Israele. Si dice che alla mattanza parteciparono anche miliziani sciiti. Furono uccisi in ogni modo possibile i profughi palestinesi ma anche cittadini siriani e libanesi, colpevoli di vivere o simpatizzare con i «nemici». Il rastrellamento dei «terroristi» avvenne casa per casa con i comandi israeliani che seguivano cosa accade dalla terrazza della vicina ambasciata del Kuwait abbandonata dai diplomatici del paese arabo. Da parte loro i soldati di Tel Aviv sparavano razzi illuminanti durante la notte, aiutando gli assassini. Dall’ospedale Gaza furono cacciati i medici e il personale straniero. Coloro che vi avevano cercato rifugio furono portati via e assassinati. Il bagno di sangue si fece più intenso nelle ultime ore del 17 settembre quando cominciò a diffondersi la notizia della strage. Alle prime luci del 18 settembre i miliziani falangisti si ritirarono, lasciandosi dietro le spalle un fiume di sangue: 3mila tra assassinati o scomparsi nel nulla.
Nessuno dei responsabili diretti e indiretti di quella strage è mai stato portato davanti a una corte internazionale per essere giudicato per crimini di guerra e contro l’umanità . La «Commissione d’inchiesta Kahan» in Israele concluse che uniche colpevoli del massacro di Sabra e Shatila erano state le milizie falangiste di Hobeika e si limitò a rilevare la responsabilità indiretta di Ariel Sharon per non averlo saputo prevenire o fermare. Elie Hobeika morì nel 2002 a Beirut in un attentato che gli chiuse per sempre la bocca mentre a livello internazionale partivano iniziative per portare i colpevoli libanesi e israeliani davanti alla giustizia.
La memoria in ogni caso non muore. Sabra e Shatila non sarà mai dimenticata. Lo confermano anche le centinaia di stranieri, che assieme ai profughi palestinesi, in queste ore stanno commemorando le vittime del massacro. Anche nel ricordo di Stefano Chiarini, il giornalista del manifesto fondatore in Italia del «Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila». Una marcia di centinaia di persone facenti capo ai comitati popolari e alle ong palestinesi, ieri ha attraversato Shatila fino al «Cimitero dei Martiri». Oggi la delegazione del «Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila», coordinata dai giornalisti Maurizio Musolino e Stefania Limiti, e i rappresentanti della ong palestinese «Beit atfal sumud», sfileranno dal centro culturale della municipalità di Ghobeiry fino a Shatila dove renderanno onore alle vittime del massacro e incontreranno le loro famiglie. È prevista anche una seconda marcia dei comitati popolari che hanno allestito una mostra fotografica sulla strage.
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