Cina, rivolte e saccheggi contro il Giappone

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PECHINO — Protestare in pubblico, in Cina, resta vietato. Le manifestazioni sono subito represse, anche se rivolte contro “nemici esterni”. È la tollerata violazione di massa di questa legge che, dopo otto giorni di raduni e scontri anti-giapponesi, alimenta l’allarme rosso scattato ieri a Tokyo e rilanciato dall’alleato Usa. La guerra nazionalista per il controllo delle isole Diaoyu-Senkaku risale ad oltre un secolo. Mai però, come in queste ore, la propaganda di Pechino aveva esibito un tacito consenso politico verso la rivolta popolare scoppiata dopo l’acquisto, da parte del governo di Tokyo, dell’arcipelago conteso al largo di Taiwan. Una tensione giunta al livello di guardia in tutto il Pacifico e tale da indurre il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, a un precipitoso tour tra Tokyo e Pechino per scongiurare la prospettiva di un conflitto armato.
Dopo l’esplosione della rabbia nelle metropoli cinesi, durante il fine settimana, toni e minacce sono però continuati a salire. Governo e stampa di Stato hanno annunciato che mille pescherecci cinesi sono salpati verso le Diaoyu, pronti per riaprire la stagione di pesca. Mai come in questi giorni Pechino ha schierato in acqua la propria flotta di difesa e il ministero degli Esteri ha anticipato che presenterà  all’Onu la richiesta di estendere a 200 miglia nautiche le acque territoriali nel Mar Cinese Orientale. Il messaggio è chiaro: Pechino non intende rinunciare all’arcipelago di sette chilometri quadrati che promette di fornire il 20% delle riserve di petrolio e gas della seconda economia del pianeta. Una rivendicazione che la martellante propaganda del partito comunista ha trasformato in ossessione nazionalista proprio alla vigilia dell’anniversario di oggi, giorno in cui i cinesi ricordano l’inizio dell’invasione giapponese nel 1931.
A Pechino e nelle principali città , migliaia di manifestanti hanno così continuato ad assediare rappresentanze diplomatiche, industrie, negozi e ristoranti giapponesi, recuperando slogan bellici e mostrando immagini di Mao. Segnalati centinaia di saccheggi e qualche aggressione fisica, tollerata da forze dell’ordine che si sono limitate ad evitare il peggio. Dura e preoccupata la reazione di Tokyo. Il premier Yoshihiko Noda, incontrando Panetta, ha riconosciuto che «l’incolumità 
dei giapponesi in Cina non risulta oggi assicurata» e ha chiesto a Pechino di «evitare provocazioni che possono condurre oltre il punto di non ritorno».
Il sottosegretario Usa ha confermato che il trattato di sicurezza con Tokyo «copre anche le Senkaku» e che dunque, in caso di «aggressione esterna», Washington sarebbe tenuta a intervenire militarmente al fianco del Giappone. Di qui l’appello affinché «la diplomazia di entrambe le parti faccia di tutto per risolvere
la crisi in modo pacifico e costruttivo».
Gli eventi superano però gli auspici e mentre la Cina minaccia sanzioni commerciali contro il Giappone, le multinazionali del Sol Levante corrono ai ripari per difendersi da sole. Gruppi come Honda, Canon, Panasonic, Mazda e Nissan hanno fermato i loro stabilimenti nel Sudest cinese per timore alle ritorsioni e a tutela di impianti e dipendenti.


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