La vita catturata dentro un segno
Il sapere dei segni, osserva Carlo Sini, è «antico quanto l’uomo». Per oltre trent’anni docente di filosofia teoretica all’Università Statale di Milano, Sini – che prenderà parte domani al Festival Filosofia con una lezione magistrale intitolata I nomi e le cose – ha da poco pubblicato un volume (Il sapere dei segni, Jaca Book, pp. 152, euro 15) incentrato proprio su una semiotica rigorosamente filosofica, partendo da due figure: il limite e la traccia. Il limite, scriveva già Aristotele, non appartiene alla cosa, ma neppure le è estraneo. Il limite è un termine al quale possiamo approssimarci, senza mai raggiungerlo. Peirce portava l’esempio di un foglio metà rosso e metà blu. Di che colore è la linea di separazione? Partendo da questa considerazione, osserva Sini, potremmo dire che il limite è una relazione, non una cosa. Limite «è la soglia in cui e per cui due cose entrano in relazione di reciprocità ». Il limite, anche scomparse le cose, permane: è la loro traccia. Partendo dalle tracce inscritte sulle grotte, dalle incisioni rupestri risalenti a più di quarantamila anni fa, passando per le osservazioni di Maria Gimbutas sulla cività del neolitico, fino a Derrida, Sini arriva così a confrontarsi con alcuni dei punti critici del nostro mondo: il denaro, la scrittura, il debito. In un suo libro del 2011, Del viver bene (Jaca Book), lei ricordava che burocrazia, scrittura e denaro sono elementi che nascono in una delle prime società complesse: quella mesopotamica. È proprio in società complesse che, per dirla con Mandeville, si mette in moto l’economia come processo di scambio. Dobbiamo davvero spingerci così indietro nel tempo per trovare se non risposte, quanto meno frammenti che contribuiscano a rispondere a qualcosa che sentiamo come urgente, qui e oggi? La domanda che mi muoveva era precisamente incentrata sul denaro e sul suo rapporto con la scrittura. Su quel segno universale che il denaro è e che condivide con la parola. Seguendo questa linea di pensieri, la retrocessione è diventata e diventa inevitabile. Andare alla radice del denaro e della parola, significa risalire il fiume – Mesopotamia, lo sappiamo, è la «terra tra due fiumi». Perché, dunque? Perché già lì si mise all’opera un utilizzo del tutto meccanicistico e economicista – in senso moderno – dell’uso del denaro. Se dobbiamo andare alla radice del problema, dobbiamo tornare là dove il problema è emerso per la prima volta. Mi interessava la crisi di questa civiltà , colta nel momento in cui si inscrive su una tavoletta il debito. Ecco, quando il debito viene scritto su una tavoletta, di fatto si è catturata una vita dentro un segno. Si rimane colpiti, quasi stupiti dal fatto che 3.500 anni prima di Cristo, la prima istituzione «alta», la prima raffinata configurazione del concetto di denaro già confondesse il mezzo con il fine, trasformando il denaro in una merce. Cosa che, evidentemente, il denaro non è, essendo il denaro l’unità di misura nello scambio di merci, non una merce. Il sapere dei segni, però, ai nostri giorni è totalmente impazzito, essendosi sgangiato da qualsiasi referenza concreta. Il denaro è pertanto un caso tipico, da quasi un secolo oramai non ha nemmeno una convertibilità , ossia una referenza nell’oro, girando a vuoto… Proprio così, essendosi sganciato dall’oro, non ha nemmeno più il barlume di un corrispettivo o, per dir così, un significante, rispetto al suo significato. Questo ha portato il denaro a essere a sua volta «oggetto» di una mera speculazione relazionale, quindi oggetto esso stesso di operazioni che sono al limite – o forse ben oltre il limite – della criminalità e del delirio. Pensiamo alla relazione che, fin dal mondo antico, è sempre stata individuata tra parola e denaro: la parola come segno per eccellenza e il denaro come segno per eccellenza sul piano economico e dello scambio. Lo stesso impazzimento del denaro nell’economia finanziaria che stiamo vivendo – conseguenza di certi aspetti del capitalismo finanziario che già Marx aveva ben presenti, d’altronde – va di pari passo con l’impazzimento della parola, diventata puro strumento di illusione mercificata. C’è però un tema, che lei sviluppa ampiamente in Del viver bene: il dono. Un’economia del dono – per quanto la definizione possa essere problematica – si caratterizzerebbe proprio per la possibilità di rimettere in circolo le eccedenze, al di là del debito, senza per questo inscriverle alla voce «accumulo». Il dono è una relazione tra persone, non tra cose. Ovviamente, la vicenda del dono nella storia della nostra società e di quelle arcaiche ha dei punti critici, ma prescindendo per ora da questi limiti che sono altrettanti punti critici della questione, è secondo me indiscutibile che le mediazioni che si realizzano in maniera estroflessa attraverso un esosomatismo – le grandi invenzioni della tecnica umana – devono però sempre essere ricondotte a figure dell’umanità , cioè a figure personali. Il contadino, per tornare al rapporto col segno, non è quello che è inscritto sulla tavoletta, la sua vita è un’altra. La tavoletta è uno strumento di calcolo, ma uno strumento di calcolo non è un rapporto personale. Nella nozione arcaica di dono, è assente la nozione moderna di proprietà . Facendo riferimento al titolo del suo ultimo libro, potremmo dire che viviamo tra segni, ma oramai fuori quadro? La questione cardine su cui ho impostato questo libro è non a caso la figura, ovviamente non da intendersi come qualcosa di banalmente «figurativo». La figura come configurazione della soglia dell’esperienza. È ciò che chiamerei «transito dell’esperienza». In ogni punto, in ogni momento dell’esperienza c’è una configurazione ritmica, c’è una provenienza e una destinazione, c’è un far presente l’assente. Siamo nuovamente di fronte alla questione del segno. In questo ultimo lavoro metto in campo una serie di figure: la lingua dei sordomuti, i chioschi catalani, figure del rapporto fusionale originario tra la madre e il bambino, una musica di gesti, suoni, affettività delle posture che sono in fin dei conti alla base dell’esperienza umana… Partendo dalla Favola delle api di Bernard Mandeville, un testo in qualche modo anticipatore di molti principi del liberalismo non solo economico, lei ha sottoposto a una critica, che potremmo definire genealogica, sia la nozione di mercato come equilibrio perfetto, sia la nozione di «individuo» che ne derivano. Perché partire proprio da Mandeville? Mandeville è importante poiché ha capito moltissime cose, le ha dette in forma apparentemente divertita – si tratta pur sempre di una «favola» – ma sulla base di una filosofia empiristica che considera l’individuo sociale come un dato originario. Questo non è privo di conseguenze nella storia delle idee, poiché ancora oggi uno sguardo superficiale, persino sui miti fondatori di certa economia, considera l’individuo singolo come dato primo, rispetto alla relazione che lo scostituisce. Ma l’individuo umano è una relazione, non un dato empirico. Proprio per questo, non gli basta vivere, ma gli è necessario il «vivere bene». Un vivere bene è per lui una necessità , gli serve cooperare, avere casa, come ci indica l’etimo stesso di economia, oikos. Che non significa un’economia domestica «privata», come spesso si sente dire, ma aver casa, stanza nel mondo. Per questo dico che la cooperazione è propriamente la sfera dell’economico. Lo scavo genealogico mira d’altronde proprio a mostrare come l’individuo sia un prodotto, non un dato originario. L’individuo è una mediazione tra la natura e la cultura, è un luogo. In questo senso, è un abitare, un abitare collettivo, un abitare comunitario. Questo consente anche di ragionare sui beni comuni, avanzando quella che è ben più di un’ipotesi, ma una necessità : difendere i beni comuni dalla loro mercificazione. Avanzerei una provocazione: e se considerassimo anche la finanza un bene comune e non una proprietà privata? È una provocazione, certamente, ma le provocazioni servono per farci riflettere e discutere. La discussione rischia però di essere schiacciata solo sull’oggi, mentre ha radici profonde. Persino la discussione filosofica non è immune da ciò che, con un neologismo tutt’altro che felice, ma che coglie nel segno, Franà§ois Hartog ha chiamato «presentismo»… Anche se poi, ciò che si perde di vista è proprio il presente, nella sua specificità , ma anche nel suo spessore… È chiaro che, nelle ultime espressioni della filosofia, si tende a assolutizzare la nostra mentalità presente, come se fosse eterna, unica o universalmente vera, quando è invece un prodotto, come tutti gli altri. Nietzsche si era reso ben conto di questo fatto, quando nel secondo aforisma di Umano troppo umano parla di un filosofare cieco. Cieco perché ignora che la storia dell’umanità è ben più lunga di quella che i loro occhi possono vedere. Dimenticare quella che il paleontologo Emanuel Anati chiama la grande epopea della vicenda umana su questa terra, equivale a dimenticare l’uomo. Equivale a dimenticare tutto quello che hanno sofferto, amato, conquistato, perduto gli esseri umani in una vicenda che ha delle figure che si ripetono in una sorta di labirinto eterno. Bisogna scavare, con metodo genealogico. La genealogia è entrare nel labirinto nel labirinto dell’umano, per uscirne sostanzialmente liberati dalla superstizione. Dobbiamo recuperare la storia, ma in maniera non superstiziosa, nella consapevolezza che noi abbiamo un rapporto vivente con i segni del passato, anche là dove non ce ne accorgiamo. Pensiamo all’alfabeto e all’analisi fatta da Alfred Kallir. L’alfabeto diventa, certo, un segno convenzionale e arbitrario, ma originariamente non lo è. Originariamente è una figura carica di umanità . Un figura per lo più sessuale, che testimonia di fasi arcaiche dell’umanità o di rapporti tra il maschile e il femminile che non sono mai venuti meno… Ridare voce a questa epopea dimenticata, a questo sapere dei segni, significa anche non cadere nelle illusioni scientistiche di tanti nostri contemporanei, che credono con un paio di molecole di avere risolto questioni che attengono l’umano. Il che equivarrebbe a cadere da un riduzionismo superstizioso a un altro… Un concetto chiave che ritorna in tutti i suoi ultimi lavori è quello di «ritmo». Un concetto non a caso legato al tempo… Il ritmo è l’aritmetica intesa come un battere rispetto al levare musicale, Il ritmo, la figura come configurazione tra provenienza e destino, che poi è il segno della nostra vita, è al tempo stesso la radice prima dell’esperire. Quindi si spiega il successo della scienza moderna, perché l’aritmetica è ritmo e l’esperienza è ritrovare quel che è già avvenuto, riconoscendolo. Come dice Whitehead, «eccolo di nuovo!». Ecco di nuovo il ritmo fondamentale dell’essere umano, cioè la capacità , prima della sua ragione, prima del suo intelletto, prima del suo pensiero. Anche il grande mistero del perché la scienza moderna sia così efficace, mi sembra si possa impostare per iniziare a comprenderlo, proprio partendo dalla rievocazione del tema del ritmo. Un tema chiave, perché è poi il tema di tutta l’umanità . Il ritmo è alla base di tutti i riti, di tutti i miti, di quella che potremmo chiamare la musica dell’umanità . Il suo ritmo. ********************** IN PROGRAMMA Tre giornate di appuntamenti Si apre oggi pomeriggio con le lezioni magistrali di Vanni Codeluppi e di Pippo Ciorra l’edizione 2012 del Festival Filosofia, che da qui a domenica metterà in scena, a beneficio degli abitanti di Modena, Carpi e Sassuolo (e dei sicuramente numerosi visitatori) duecento appuntamenti fra conferenze, mostre, concerti, spettacoli. Filo conduttore di quest’anno, «le cose», osservate ovviamente attraverso il prisma della filosofia – come dimostrano le citazioni sul tema riportate nella testata del sito www.festivalfilosofia.it, che vanno da Marx («Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare agli uomini. A noi, come cose, non compete. Noi ci riferiamo l’una all’altra soltanto come valori di scambio») a Merleau-Ponty («Non si può dire se è lo sguardo o sono le cose a comandare»). Tra i protagonisti del festival Zygmunt Bauman, Marc Augé, John Searle, Anne Cheng, Bruno Latour e Scott Lash.
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