FACCIAMO L’ECONOMIA

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Viviamo in una società  della crescita. Cioè in una società  dominata da un’economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società  del consumo è l’esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni – e dunque di prodotti superflui e rifiuti – e nell’emissione di scorie e inquinamento (dell’aria, della terra e dell’acqua). Il cuore antropologico della società  della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema e dall’altra con uno strumento privilegiato della colonizzazione dell’immaginario, la pubblicità . E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio. Per usare una metafora siamo diventati dei «tossicodipendenti » della crescita. Che ha molte forme, visto che alla bulimia dell’acquisto – siamo tutti «turboconsumatori » – corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro. Un meccanismo che tende a produrre infelicità  perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà . Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. Senza poter trovare il «significante perduto», si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o l’amore, tutte cose la cui sete non conosce limiti. (…) Anche per questo ci serve immaginare un nuovo modello. Economico ed esistenziale. Così la ridefinizione della felicità  come «abbondanza frugale in una società  solidale» corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l’egoismo risultante da un individualismo di massa. Uscire dalla società  del consumo è dunque una necessità , ma il progetto iconoclasta di costruire una società  di «frugale abbondanza» non può che suscitare obiezioni e scontrarsi con delle forme di resistenza, qualunque siano i corsi e i percorsi della decrescita. Innanzitutto, ci si chiederà , l’espressione stessa abbondanza frugale non è forse un ossimoro peggiore di quello giustamente denunciato dello sviluppo sostenibile? Si può al massimo concepire ed accettare una «prosperità  senza crescita», secondo la proposta dell’ex consigliere per l’ambiente del governo laburista, Tim Jackson, ma un’abbondanza nella frugalità  è davvero eccessivo! In effetti, fintanto che si rimane chiusi nell’immaginario della crescita, non si può che vedervi un’insopportabile provocazione. Diversamente invece, se usciamo da certe logiche, può risultare evidente che la frugalità  è una condizione preliminare rispetto ad ogni forma di abbondanza. L’abbondanza consumista pretende di generare felicità  attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest’ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all’immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all’opposto di questa logica, la società  della descrescita si propone di fare la felicità  dell’umanità  attraverso l’autolimitazione per poter raggiungere l’“abbondanza frugale”. Come ogni società  umana, una società  della decrescita dovrà  sicuramente organizzare la produzione della sua vita, cioè utilizzare in modo ragionevole le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà  un po’ come quelle «società  dell’abbondanza » descritte dall’antropologo Marshall Salhins, che ignorano la logica viziosa della rarità , dei bisogni, del calcolo economico. Questi fondamenti immaginari dell’istituzione dell’economia devono essere rimessi in discussione. Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che «una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una depauperizzazione psicologica », uno stato d’insoddisfazione generalizzata, che definisce, egli afferma, «la società  della crescita come il contrario di una società  dell’abbondanza». La vera povertà  risiede, in effetti, nella perdita dell’autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: «Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi». Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La ritrovata frugalità  permette precisamente di ricostruire una società  dell’abbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava «sussistenza moderna». Ovvero «il modo di vivere in un’economia post-industriale, all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato, e ci sono arrivate proteggendo – attraverso strumenti politici – un’infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare valori d’uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti di bisogni professionisti ». La crescita del benessere è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività  del desiderio. Molte di queste opzioni implicano un cambiamento della nostra attitudine anche rispetto alla natura. Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d’estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità  di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell’ingegnosità  umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità  suscettibile di sviluppare un’attitudine di fedeltà  e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società  della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un’obsolescenza programmata dell’umanità . (traduzione di Tessa Marzotto Caotorta)


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