L’inizio e la fine

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Nel bene e nel male, la società  italiana (al pari di gran parte di quelle europee) è figlia di questa rivoluzione. Che cosa resta oggi di tutto ciò?
Ben poco, anzi quasi nulla. I dati Ocse riportati ieri da Roberto Ciccarelli su questo giornale fotografano l’esito di un’involuzione iniziata nella seconda metà  degli anni Novanta, con la riforma della scuola (autonomia, ecc.) e dell’università  («3+2»). Quella che allora era sbandierata (dal governo di centro-sinistra) come una razionalizzazione dell’offerta formativa era in realtà  una via di mezzo tra un’illusione e un’utopia conservatrice. Dapprima un’inflazione di corsi di laurea e di cattedre che favoriva soprattutto il ceto accademico. E poi, con il governo Berlusconi e il ministero Gelmini, un drastico ridimensionamento dell’offerta, con la contrazione delle iscrizioni e la diffusione dei numeri chiusi. Con il risultato che oggi la formazione universitaria è al tempo stesso una chimera per chi non riesce a infilarsi in un corso a numero programmato e uno spreco di tempo e di risorse per chi conclude gli studi ma non può accedere alle professioni. Infatti, la crisi ha determinato una contrazione degli sbocchi anche per la lauree più specializzate e prestigiose. Ho in mente il caso di un laureato in fisica negli Stati Uniti che in Italia non ha trovato di meglio che un lavoro precario in un call center…
Al tempo stesso, la riforma del governo degli atenei (insieme a quella dei concorsi) promossa da Gelmini ha consegnato l’università  in mano ai soli professori ordinari (unici commissari alle idoneità ) e ai gruppi che controllano le Scuole e i Consigli di amministrazione. L’università  italiana, oggi, non è solo più chiusa di quanto non fosse all’inizio degli anni Settanta, ma è anche infinitamente più autoritaria.
L’aspetto straordinario della vicenda è l’acquiescenza con cui gran parte del ceto accademico ha subito questa involuzione (con la parziale eccezione della lotta dei ricercatori). Oggi, ricercatori e associati non solo sono soggetti ai bislacchi criteri Anvur per accedere all’idoneità  alle fasce superiori, ma anche al ricatto di una chiamata aleatoria da parte delle sedi, in mancanza della quale l’idoneità  potrà  decadere. Questo significa che la carriera dipenderà  sempre più dall’adesione, fin nei minimi dettagli della vita accademica, alla volontà  gestionale degli organismi di governo. Come tutto questo abbia a che fare con la libertà  di pensiero e di ricerca è misterioso.
L’università  in Italia, dunque, è sempre più selettiva e progressivamente priva di democrazia interna. Ma è anche sostanzialmente inutile ai fini della mobilità  individuale. E qui si sconta, proprio in una fase di recessione economica e sociale, quanto sia stata strategicamente letale l’ideologia della professionalizzazione alla base della famosa riforma Berlinguer o del «3+2». Il principio che l’accesso alla formazione superiore è un diritto che ogni società  sviluppata deve riconoscere ai suoi membri più giovani, compatibilmente con i loro interessi e capacità , è stato abbandonato a favore della mera utilità  economica. Con il risultato che, data la crisi attuale, l’università  non funziona né come strumento di diffusione delle conoscenze e promozione culturale, né come mezzo di promozione sociale. E qui si misura fino in fondo come il «razionalismo» del centro-sinistra abbia fatto da battistrada alla «reazione» del governo Berlusconi.
Il governo dei tecnici ha dato in sostanza una patina di fatalità  finanziaria a questo processo di lungo periodo. Nello stesso momento in cui Monti dichiara – con l’approvazione quasi unanime – che una fase di recessione (e cioè di ulteriore sofferenza sociale) è indispensabile alla “crescita”, cioè a una rinascita economica più o meno immaginaria e comunque rinviata a un futuro incerto, non fa che sancire la fine definitiva della formazione come diritto. In nome dell’utilità , o del contenimento del debito, scuola e università  verranno ulteriormente mortificate. Con la benedizione delle forze che si apprestano a governare dopo Monti. Ma quello all’istruzione è solo uno dei diritti di cui, in questi anni, si stanno perdendo le tracce.


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UN DIRITTO NON È MAI UN PERICOLO

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    È per lo meno singolare che tra gli attentati alla pace, alla giustizia e alla dignità  umana il Papa abbia messo ai primi posti l’estensione alle persone omosessuali del diritto a sposarsi. Era già  una forzatura, cui per altro Giovanni Paolo II ci aveva abituato, equiparare il diritto all’aborto e a chiedere di essere aiutati a morire alle uccisioni che si effettuano in guerra e ai genocidi che spesso accompagnano le guerre civili.

L’Italia spende il 4,7% pil in istruzione, la media Ocse è il 5,8%

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Roma – L’Italia investe il 4,7% del proprio Pil in Istruzione contro una media Ocse del 5,8%. Lo rivela il Rapporto Ocse sull’Educazione presentato oggi. Negli anni la quota di Pil investita su questo comparto e’ solo leggermente aumentata nel nostro paese, mentre e’ in calo, fra il 2000 e il 2010, la percentuale di spesa publica destinata all’Istruzione: passa dal 9,8% al 9% (la media Ocse e’ il 13%). Questo, comunque, in un clima di revisione e contenimento della spesa. Il dato, pero’, ci colloca al secondo posto fra i paesi con la spesa pubblica piu’ bassa per l’istruzione dopo il Giappone. In termini reali c’e’ stato un piccolo incremento, spiegano dall’Ocse, del 4%. Niente paragonato al 33% medio degli altri paesi.

Se il “tecnico” è un ammiraglio

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Che bellezza, la Repubblica si è accorta che gli F-35, i caccia-bombardieri che l’Italia dovrebbe acquistare nei prossimi undici anni al costo di oltre 15 miliardi (ma il prezzo è in crescita, l’aereo proprio non va, e diversi paesi si sono già  ritirati dall'”affare”), sono uno spreco, di questi tempi.

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