La Cina non trova più il leader del futuro
Una situazione sconcertante che, apparentemente, non sembra causare imbarazzo alle massime autorità , nonostante l’anomalia dell’accaduto. Talmente singolare da sollevare un polverone di ipotesi che nessuna censura o controllo dell’iperattivo web, immediatamente attivati, riesce ancora a imbrigliare.
Il colpo di mano politico che potrebbe aver fatto fuori il numero uno nella successione appare improbabile persino agli adepti più devoti della teoria del complotto, anche se la caduta in disgrazia dell’ex capo del Partito di Chongqing, Bo Xilai, con il suo corteggio di misteri, fughe al consolato Usa e omicidi di uomini d’affari inglesi, ha allestito un set politico in cui niente ormai appare impossibile. Ma il fatto che l’ultimo atto pubblico di Xi Jinping sia stato l’intervento alla Scuola centrale del Partito a Pechino, l’1 settembre, porta a escludere un’ipotesi di defenestrazione brutale, a meno di ammettere che i burattinai di una simile mossa siano dei temerari. Un profilo che di questi tempi latita all’interno del Pcc.
L’ipotesi è resa improbabile anche dallo svolgersi degli ultimi mercanteggiamenti interni per assicurarsi l’arrivo di propri uomini ai vertici, in vista del 18esimo congresso che dovrebbe tenersi in ottobre ma la cui data non è stata ancora comunicata. Voci trapelate dalle stanze segrete dicono che gli ultimi esiti del braccio di ferro avrebbero visto un arretramento del presidente Hu Jintao, un deciso prevalere dell’ottuagenario terribile, Jiang Zemin, e punti a favore del medesimo Xi Jinping (South China Morning Post 4 settembre; Reuters 5 settembre).
Più probabile allora che Xi sia stato inchiodato a letto da un colpo della strega o si trovi in rianimazione per un infarto, o che un ictus gli abbia inferto danni più o meno gravi. Molto si rimarca l’attitudine al segreto dei regimi autoritari per quanto attiene al corpo dei leader soprattutto quando, malati, non trasmettono un’immagine consona al ruolo di potere che ricoprono. Il fatto che il 59enne Xi Jinping non sia ancora assurto alla massima carica può persino aggravare questa paranoia. Nel momento in cui sul fronte internazionale esplode lo scontro con il Giappone per il controllo delle isole Diaoyu e due navi vedetta cinesi sono ormai in vista degli scogli contesi, nella settimana in cui lo scenario interno è oscurato dalla conferma del rallentamento dell’economia – lasciando aperti gli interrogativi sulla sua entità e durata – la malattia paventata del futuro leader colpisce anche la scena politica, già travagliata dalle vicende degli ultimi mesi. Un convergere di incertezze che spiega l’ansia, alimentata anche dai silenzi. Tanto che sulla rete qualche blogger si azzarda a dire che la tensione con Tokyo sia stata montata ad arte per distogliere l’attenzione dalle questioni interne.
Sia come sia, la transizione politica concordata e istituzionalizzata si trova ora a dover governare il più grande degli imprevisti: un malanno che potrebbe rimettere in discussione la futura capacità di governo del prescelto. Un eventuale ritiro di Xi Jinping sarebbe un terremoto pari a una sua caduta in disgrazia, per la complessa impalcatura messa in piedi finora attraverso le trattative.
La vicenda porta poi a un’ultima considerazione sulle strategie mediatiche di Pechino. Si è molto teorizzato, da parte del Partito e degli organi preposti, sulla necessità di «formare» l’opinione pubblica attraverso l’informazione, e sulla capacità di prendere l’iniziativa nel dare notizie, così da indicare la strada che gli altri dovranno seguire. Miliardi di dollari sono poi stati spesi per la costruzione di un sistema mediatico globale all’altezza della nuova potenza cinese, uno strumento per far ascoltare la sua voce e diffondere anche la sua visione del mondo. La gestione del caso Xi Jinping, dopo quella dell’affaire Bo Xilai, mostra quanto sdrucciolevole ancora sia questo terreno, e quanto sia difficile passare dalle parole ai fatti.
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