Lo scontro generazionale nel Pd le quattro correnti dei giovani divisi dal sostegno a Renzi

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MILANO. LA DISTANZA fra la politica delle parole e i fatti della vita Stefano Fassina l’ha misurata col centimetro sulla sua pelle nell’arco di tre giorni. Il giorno 8, sabato, era al tavolo dei relatori del magnifico auditorium Loris Malaguzzi di Reggio Emilia a spiegare ad una platea di trenta- quaratenni che Bersani farà  meglio di Monti, platea del resto a priori convintissima, perché non si fanno riforme senza consenso e se c’è un posto dove il Pd deve stare è quello di chi lavora: Carbosulcis, Mirafiori, Almaviva. Avanti, a sinistra. Il giorno 10, lunedì, era appunto lì, tra i lavoratori dell’Alcoa in protesta, ed è lì che è stato contestato: una spinta, vattene, andatevene, non sappiamo che farcene delle vostre promesse, ci avete abbandonati ora è tardi.
SE ORA sia davvero tardi, questo è il punto. Se sia troppo tardi per colmare il vuoto che separa le parole dei convegni e degli articoli di giornale dai fatti che, lontano dalle sale insonorizzate, colorano di rabbia, di stanchezza, di fragilità  e infine di disperazione le reali vite delle persone alle quali il Partito democratico guarda come al suo elettorato ma che sempre meno, invece, da quel partito si sentono rappresentate. Un bacino enorme di delusi che ingrossano le fila del ribellismo politico, della disillusione incapace di distinguere.
Questa è la sfida. Questa la posta in gioco della campagna elettorale appena cominciata, le primarie del Pd in vista delle elezioni di primavera. Restituire credibilità  alla politica, che in concreto significa: proporre come candidate a colmare quel vuoto persone credibili. Va sotto il nome di rinnovamento, questa sfida. Di niente altro ormai si parla nelle feste democratiche, nei circoli, nelle città  e nei paesi percorsi in camper o in bicicletta dai candidati. Il rinnovamento, il ricambio.
Su Renzi, che del tema si è impadronito per tempo, raccontano a Ravenna questo aneddoto. Ravenna, Romagna, terra di Bersani. Alberto Pagani, segretario provinciale del Pd: «Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta con chi.
Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad, quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello di mia suocera, che fa l’imprenditore e che quando vuol sapere di politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E lui: ma sì,
è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani faccia il segretario, Renzi il presidente del consiglio». È così, annuisce il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, ex Pci, 55 anni: «Se chiedi ai quadri di partito è un conto, se parli con la nostra gente, anche coi vecchi, è un altro: in tanti pensano che sia venuta ora di rinnovare e io credo che in fondo in Renzi ci vedano i loro figli, i loro nipoti. Anche se non li convince fino in fondo ci vedono la generazione dei ragazzi che hanno a casa e pensano che possa dar loro una chance».
Certo che non può essere solo una questione di età : messa nei termini dello scontro generazionale «è stupida e stucchevole, sono d’accordo con Alfredo Reichlin», dice Alessandra Moretti, vicesindaco di Vicenza: «Noi non vogliamo uccidere i nostri padri. Abbiamo quarant’anni: noi “siamo” padri e madri». E tuttavia è in questi termini che la pongono tutti, ormai, a partire da Bersani: che sgombra il palco della festa di Reggio per salirci da solo, che invita i suoi trenta-quarantenni, la generazione T/Q, i giovani turchi, a farsi avanti. Tra gli autoconvocati di Reggio Emilia, al centro Malaguzzi, ci sono al completo gli uomini dello staff del segretario, uffici stampa passati e presenti, bracci destri e portavoce. C’è Aurelio Mancuso, ex Arcigay ora Equality: «Qui ci si prepara allo scontro, ci si mette in luce per una eventuale compagine di governo, ci si segnala. Troverà  anche molti della corrente ex Marino, perché sui temi dei diritti civili queste sono le posizioni più a sinistra. Poi qualche ex franceschiniano, qualche lettiano. Il grosso però è formato dalla componente organica agli ex Ds: se Renzi le mette sullo scontro generazionale bisogna opporgli la stessa carta, no?». Organici, partitici, keynesiani in economia, vicinissimi alla Cgil, camussiani osservanti. Parlano uno dopo l’altro dal palco di “Rifare l’Italia” e tutti somigliano a qualcuno dei padri.
Fassina a Bersani, Alessandra Moretti ad Anna Finocchiaro, Andrea Orlando a Violante, Matteo Orfini a D’Alema persino nelle pause e nel tono di voce, nelle battute sarcastiche, nella qualità  del silenzio di chi ascolta. Nessuno somiglia a Veltroni «perché il vero erede di Veltroni è Renzi», sorride una giovane volontaria della Festa venuta qui, dice, solo a «dare un’occhiata: difatti Renzi in questa platea è il nemico».
Con Renzi, che si prepara a partire da Verona vento in poppa, si sono schierati finora tutti quelli che hanno molto da guadagnare e poco da perdere. Giovani dirigenti e amministratori come Matteo Richetti, Davide Faraone, Roberto Reggi. Nessun dirigente con una posizione consolidata, nessuno che abbia messo a rischio una rendita nè una promessa. Le grandi manovre si sono chiuse un paio di mesi fa, quando il gruppo che un tempo si chiamava dei “piombini” — Civati, Serracchiani, Scalfarotto, lo stesso Renzi — ha provato a puntare su Debora Serracchiani. L’ipotesi era più che concreta, dicono: Renzi diceva «dobbiamo vincere, se Debora ha più possibilità  di me rinuncio, ma dev’essere una cosa ben fatta e sicura». Non è stata ben fatta né sicura, evidentemente. Serracchiani oggi corre per la presidenza del Friuli Venezia Giulia e sulle primarie si dice perplessa.
Parla dal palco della festa di Reggio seduta accanto a Martina, Sandro Gozi, Nico Stumpo.
«Dico che rischiamo di essere quelli che mentre il palazzo crolla si fermano a scegliere le tendine del bagno», applausi tiepidi di una platea di età  avanzata, bersaniana senza se e senza ma, incerta sul cognome di Gozi. «Non ho capito bene come si chiama? Cozzi?”, domanda un vecchio volontario.
Di martedì, ieri, Pippo Civati presentava a Milano con Stefano Boeri il libro di interviste a esponenti pd “Ma questa è la mia gente” di Ivan Scalfarotto, quarantenne vicepresidente del partito. «La questione del rinnovamento generazionale nasconde quella, più seria, della contendibilità  del potere — dice Scalfarotto — questo è un partito in cui cambia il contentitore, anche il nome, ma mai il contenuto». Al contrario dei grandi partiti democratici dove il contenitore è sempre lo stesso, l’identità  del partito più forte di quella di chi lo abita, e cambiano i protagonisti. «Il problema delle nuove generazioni è che sono fatte a loro volta di persone cooptate al potere. Non è colpa loro, funziona così: se non sei in quota a nessuno non entri in Parlamento. Si sa da dove vieni, chi ti porta. La conseguenza è che per emanciparti devi personalizzare lo scontro, fare le tue piccole battaglie in diretta tv. Battute, battibecchi, e pazienza per la credibilità  del partito che è di tutti. Quando la gente da casa vede scontrarsi Boccia e Orfini, un giovane lettiano e un giovane bersaniano, e sente che poi alle primarie sono sullo stesso fronte, contro Renzi: ecco, la gente cosa capisce? E il lavoro, i diritti, l’Europa, il futuro della conoscenza e il web: non è su questo che si dovrebbe piuttosto chiedere il ricambio in nome di una coesione generazionale?».
Nessuna coesione generazionale, in effetti. Pippo Civati conduce una nuova battaglia interna buona e giusta: sostiene i “6 quesiti referendari al Pd” su questioni come il reddito minimo, la riforma fiscale, il consumo del suolo, i matrimoni gay, l’ineleggibilità  di chi ha carichi pendenti, le alleanze. Non proprio dettagli, come si vede, per quanto il ricorso allo strumento del referendum (pure previsto dallo statuto) segnala che da sole, le sei grandi questioni, non si muovono. Tendono anzi a ristagnare, ad essere continuamente accantonate come incomode. Di grandissima attualità  quella sulle alleanze, di questi tempi. La quale, scrive Civati sul suo blog, porta con se l’eterno rovello del sistema elettorale. Che tanto si voleva cambiare ma sinora non si cambiò, «purtroppo ancora nulla si sa del nuovo sistema elettorale ma si teme che dal Porcellum si passi al Prosciuttum, si sente parlare di liste bloccate per quote significative». Un’aggiustatina, insomma. Sarebbe proprio un peccato che finisse così: persino tra i giovani bersaniani di Rifare l’Italia c’è chi — Piero Lacorazza, presidente della provincia di Potenza — si azzarda a dire che sarebbe davvero meglio rinunciare alle garanzie e lasciare la possibilità  di far scegliere gli elettori.
I giovani di Letta si riuniscono a Dro, in Trentino e parlano — Alessia Mosca, Guglielmo Vaccaro, Francesco Boccia — di quote rosa, cervelli in fuga. Propongono leggi, elaborano piattaforme: sono l’ala liberal con forte venatura cattolica, sulla carta potrebbero dialogare con Renzi ma si segnalano fedeli alla linea Bersani, invece. La fassiniana Francesca Puglisi lavora con Marco Rossi Doria, sostenitore di Ignazio Marino ora al Governo, al futuro della scuola. Ciascuno porta un pezzo e sarebbe anche interessante provare a tessere una tela comune ma è tempo di serrare le fila, ormai. Chi sta con Renzi e chi sta contro, questo ora è il punto. “Adesso”, come dice perentorio lo slogan del sindaco. I sondaggi fanno paura, sottovoce si parla di altri candidati possibili. Una donna, magari. Un terzo incomodo che riapra i giochi. Chissà . Molti volevano Barca, ma Barca fa il ministro e non può. «Ragazzi, io Grillo non lo voto ma se non tirate fuori uno diverso da Renzi guardate che ci tocca votare lui», si alza dal pubblico della libreria di Milano una signora di mezza età . Applausi, sguardi di smarrimento, sorrisi. La signora, del resto, ha detto: ragazzi.
(1 — continua)


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