Antidoti ai diktat di una società  fondata sull’inutile e il superfluo

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L’intento del libro di Andrea Pomella 10 modi per imparare a essere poveri ma felici (Laurana, pp.133, euro 11.90) è parodico. Rispetto alle decine di testi su «come vivere bene», i cui titoli ammiccanti promettono ai lettori felicità , ricchezza, benessere, il testo di Pomella rappresenta l’esatto rovescio. Non un libro sulla ricchezza e i modi per ottenerla, ma sulla povertà  e come essa non sia il peggiore dei mali. Infatti la parola povertà  così come felicità , entrambe emblematicamente nel titolo, portano con sé una serie di pregiudizi negativi. Il buon senso borghese ci dice che sarebbe meglio essere ricchi, o almeno facoltosi. E la televisione e tutto l’immaginario imperante dei media certifica la bontà  di questo pensiero. Si associa al termine povertà  l’uomo che rovista nei cassonetti, il bambino africano con la goccia al naso e la mosca d’ordinanza appoggiata al viso. E subito allignano nella nostra mente immagini di sporcizia, di puzza, di una discesa che porta all’inferno del vivere.
La scelta di Pomella è invece quella di riportare la parola povertà  alla sua originale carica eversiva e per fare questo apre il libro con una immaginazione: «Se una mattina mi risvegliassi povero, per prima cosa mi siederei al tavolo (…) per cercare di capire cosa ho perduto, di così fondamentale, da avere questa nuova e assoluta certezza di essere povero». Questo attacco chiede ai lettori di figurarsi come non vorrebbero mai essere, instillando in ognuno, con tono piano e colloquiale, il dubbio fastidioso del «è accaduto a altri e potrebbe succedere a te».
Il discorso prosegue: il nuovo povero, o il di-nuovo povero, prende atto della sua condizione, si domanda cosa farà , come farà  a vivere in questo mondo che cospira affinché i poveri non esistano. La sua iniziale disperazione si fa via via meno cupa, meno opprimente quando capisce che non ha perduto nulla, perché «la prima colossale bugia» è che «la società  in cui ho vissuto mi ha fatto credere che una felicità  a interessi zero (…) fosse alla mia portata» e che quindi è necessario «imparare a essere povero». La povertà  cioè non è tanto la privazione dei beni, quella potremmo definirla più esattamente miseria, ma è una «impresa culturale»: imparare a rinunciare al superfluo, rendersi conto che la maggior parte delle cose che desideriamo sono sostanzialmente inutili. In una parola, e per usare la potente frase di Simone Weil citata da Marco Rovelli nell’introduzione, Pomella getta «discredito sul denaro» sulla sua stupidità , sulla stupidità  della società  attuale in cui «se non desideri fare soldi», non sei nessuno, dove la giusta paga è stata sostituita dalla provvigione, dove la «meritocrazia» ha preso il posto della competenza.
Il percorso che tratteggia Pomella è irto e labirintico, ma forse la felicità  non sta nella meta raggiunta bensì proprio nel cammino, come ricorda Machado: «caminante, no hay camino/ se hace camino al andar».


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