Il Paese sempre più indeciso promuove il Professore ma non il governo tecnico

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L’ESTATE sta finendo. Ma l’incertezza politica no. Il sondaggio dell’Atlante Politico, condotto da Demos, negli scorsi giorni, per la Repubblica, riproduce questo clima d’opinione uggioso. Da cui emerge un solo solido riferimento. Mario Monti.
IL PRESIDENTE del Consiglio. Oltre metà  dei cittadini (il 52%), infatti, valuta positivamente il governo. Una quota ancor più alta di elettori, il 55%, esprime fiducia personale nei suoi riguardi. Si tratta di un orientamento in evidente crescita, dopo un periodo di raffreddamento. Gli altri personaggi politici lo seguono a grande distanza. Soprattutto i leader di partito. Di maggioranza e di opposizione. Superati, non a caso, dai “tecnici” del governo Monti (Passera e Fornero). E da coloro che, come Montezemolo, non sono ancora “scesi in campo”, nonostante lo
promettano – oppure lo “minaccino” – da anni. Unica eccezione (insieme alla Bonino): il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di cui parleremo più avanti.
La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione verso le politiche del governo. Al contrario. Gran parte dei cittadini si dicono, infatti, contrari alle principali riforme avviate. Pensioni, IMU e mercato del lavoro, soprattutto. Si tratta, dunque, di un sentimento espresso “nonostante”. Rispecchia, cioè, la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali. Ma anche le preoccupazioni internazionali. Perché è convinzione diffusa che l’Unione Europea e l’Euro
abbiano prodotto molti problemi. Ma solo il 23% degli italiani pensa che fuori della UE le cose andrebbero meglio. Mentre una quota più ampia, ma comunque minoritaria, inferiore al 40%, ritiene che l’Euro comporti solo complicazioni. L’Euro e la UE, insomma, sollevano dubbi. Ma è largamente condivisa l’idea che “senza” l’Europa e la moneta europea i rischi per la tenuta del nostro sistema – economico e non solo – crescerebbero ancora. Monti appare il principale garante. Di fronte ai problemi europei. E alla debolezza della politica nazionale. La fiducia verso i partiti, d’altronde, resta al di sotto del 5%. Quella verso il Parlamento
intorno al 10%.
Le stime di voto riflettono questo clima di incertezza – e di “dipendenza” da Monti. Così si assiste alla tenuta e perfino a una certa ripresa dei partiti “montiani”:
il PdL, il Pd e l’UdC. Il partito più “montiano” di tutti. Mentre il M5S scivola sotto al 15%. Un dato molto elevato. Ma la grande
spinta conosciuta dopo le elezioni amministrative di maggio, per ora, sembra esaurita. Non solo per le polemiche di Favia (amplificate da “Piazzapulita”) contro la
governance
di Grillo e Casaleggio, che hanno avuto un impatto limitato sul sondaggio. Il fatto è che in questa fase di stagnazione politica l’unico polo condiviso è Monti. Che nega di volersi ricandidare, in futuro. Per cui mancano i bersagli contro cui rivolgere l’insoddisfazione. D’altronde, non frena solo il M5S: anche l’IdV, l’altra opposizione. Solo la Lega risale – di poco – la china, oltre il 5%. Così l’unico vero “orientamento” di voto che cresce veramente è, non a
caso, il “dis-orientamento”. Che allarga i confini dell’area grigia del non-voto e dell’indecisione. Sopra il 45%. Quasi un elettore su due. La misura più ampia da quando viene realizzato l’Atlante Politico. Cioè, da quasi 10 anni.
D’altronde, non è chiaro quando e come si voterà . Con quale legge elettorale, con quali alleanze, con quali candidati. Se si riproponesse lo schema tradizionale, il centrosinistra prevarrebbe largamente. E, come ha sostenuto ieri Bersani a Reggio Emilia, “Deciderà  il voto, non i banchieri”. Ma nel PD, come mostra l’Atlante Politico, c’è incertezza sulla coalizione con cui
“andare al voto”. La maggioranza dei suoi elettori (51%) preferisce un’alleanza con le altre forze di Sinistra, a costo di sacrificare l’intesa con l’UdC. Al tempo stesso, però, (50%) rifiuta l’accordo con l’IdV. Le polemiche con Di Pietro, dunque, hanno lasciato un segno profondo. L’incertezza, nel PD, si estende alla leadership. Che gran parte degli elettori di centrosinistra – e ancor più del PD – vorrebbe scegliere attraverso le primarie. Il favorito – secondo il sondaggio di Demos – è Pier Luigi Bersani. Lo voterebbe oltre il 43% degli elettori di centrosinistra. Tuttavia, Matteo Renzi dispone di una base ampia. Quasi il 28%. Ma, soprattutto, ha un sostegno trasversale. Non a caso, dopo Monti, è il politico che attrae il maggior grado di simpatie. I suoi consensi, in caso di primarie, potrebbero crescere ulteriormente se la partecipazione andasse oltre i confini tradizionali dell’elettorato più vicino e convinto. Renzi, infatti, è particolarmente apprezzato dagli elettori “critici” e delusi del centrosinistra, oggi vicini al M5S, all’IdV oppure confluiti nell’area grigia dell’incertezza. A centrodestra c’è il problema opposto. Nel PdL, inventato da Berlusconi, non possono fare a meno di lui. Ma, al tempo stesso, non gli credono più come prima. Berlusconi. Oggi, fra gli italiani, ha toccato l’indice di fiducia più basso degli ultimi anni (meno del 20%). E solo 40 elettori del PdL su 100 (che scendono a 20 fra quelli di centrodestra) pensano che dovrebbe essere Lui il candidato premier alle prossime elezioni. Con lui o senza di lui, insomma:
il centrodestra appare sperduto. Così gli italiani sembrano aver smarrito la fiducia nella politica. Ma anche nell’antipolitica. Tuttavia, non sono divenuti impolitici e indifferenti. Vorrebbero, anzi, che la politica riprendesse il ruolo che le spetta. Cioè: dare loro rappresentanza e governo. Esprimere una classe dirigente capace di guidarli – dentro e fuori il Paese. Non a caso la maggioranza degli italiani (52%) pensa che il prossimo governo dovrebbe essere espresso dalla “coalizione che ha vinto le elezioni” piuttosto che da “un nuovo governo tecnico” (39%) sostenuto dai principali partiti, come avviene
ora.
Tuttavia, l’unico leader di cui gli italiani si fidino, oggi, è Monti. Comunque, diffidano molto più di Bersani e Berlusconi. Ma anche di Grillo e Di Pietro.
Così gli italiani – la maggioranza di essi, almeno – vuole un governo “politico”. A condizione che a guidarlo sia Monti. È come se la fiducia nella democrazia rappresentativa si scontrasse con la sfiducia nei confronti dei rappresentanti. Un corto circuito da cui sembra difficile uscire. A meno che Monti – contrariamente alle sue ripetute affermazioni – non decida, alla fine, di scendere in campo.


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