Hollande, le tasse e la sinistra che delude

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Sembra già  finito l’entusiasmo dei francesi per Franà§ois Hollande, la cui immagine di «presidente normale» si è rapidamente rovesciata in quella di «presidente immobile», addirittura «inadeguato» o «esitante», di fronte alla crisi che sta trascinando la Francia fra i grandi malati d’Europa: tre milioni di disoccupati, debito pubblico al 90 per cento, bilancia commerciale in profondo rosso, grandi gruppi industriali in crisi e impossibilità  di mantenere un modello sociale che dispensa diritti e protezioni come nessuno al mondo.
Non è che i francesi si siano pentiti in fretta della svolta a sinistra o già  rimpiangano l’attivismo frenetico di Nicolas Sarkozy. Ma la delusione è palpabile. La classe dirigente e i commentatori più autorevoli reclamano riforme in profondità  (Hollande dovrebbe fare come Schrà¶der ieri e come Monti oggi, si sente dire). I ricchi minacciano l’esilio fiscale dalla patria giacobina e confiscatoria. Il ceto medio teme aliquote più pesanti. Ma al tempo stesso diverse categorie sociali (pubblico impiego in testa, la base elettorale del partito socialista) sono pronte alle barricate e mugugnano contro l’Europa soltanto a sentire parlare di ridurre diritti acquisiti e sgravi fiscali.
Hollande è preso a tenaglia dalla politica che si è imposto. Da un lato, risanamento delle finanze e tagli della spesa (a cominciare dagli stipendi dei ministri) e dall’altro misure redistributive e simboliche che rispondano al bisogno di giustizia di ceti popolari sempre più impoveriti, come appunto l’ormai famosa «tassa 75 per cento» sugli stipendi sopra il milione, che però sta avendo effetto boomerang.
Annunciata in modo un po’ demagogico in campagna elettorale, rivista al ribasso per evitare precipitose fughe di capitali come ai tempi di Mitterrand, il presidente Hollande la ritiene un doveroso contributo di solidarietà  nel momento in cui tutti i francesi sono chiamati a fare sacrifici.
Ma la tassa, prima di essere applicata, ha rivelato lo spirito patriottico di alcune grandi fortune di Francia. Sull’Eliseo, la pressione mediatica e diretta è stata ossessiva. In testa l’imperatore del lusso Bernard Arnault (Lvmh), l’uomo più ricco del Paese, che annuncia di chiedere la cittadinanza in Belgio, dove sono espatriati non pochi contribuenti francesi. «Per ragioni commerciali e non fiscali», precisa, ma il suo tempismo lascia perplessi. Arnault, per fatturato, occupazione e immagine, dà  moltissimo alla Francia, ma come altri tycoon dimentica quanto la Francia abbia fatto per favorire nascita e sviluppo del suo impero.
Hollande ha rintuzzato le critiche, non risparmiando qualche frecciatina ai giornalisti, i quali sarebbero ancora influenzati dai ritmi impressi da Sarkozy alla politica, da uno stile fatto di annunci a raffica e decisionismo, in molti casi sterile. Il contrario della marcia tranquilla e dialogante che Hollande si è imposto, auspicando che i risultati non si misurino in un giorno, bensì in una legislatura.
Con sorniona consapevolezza della volubilità  e dell’insoddisfazione cronica dei francesi, il presidente ritiene che le riforme possano essere accettate, ma senza terapie d’urto, in un quadro non ansiogeno, sotto la più tranquillizzante retorica della Francia giusta e solidale. Uno strappo potrebbe compromettere la tabella di marcia e rimettere in circolo veleni sovranisti e antieuropei, per i quali la Francia non ha ancora trovato il vaccino.
La storia europea delle ultime settimane sembra dargli ragione. Hollande è stato il primo a sostenere che il solo rigore non porta da nessuna parte e rischia di far implodere la costruzione europea. E il primo a riaffermare che l’Europa ha bisogno di misure pubbliche per la crescita, senza mettere nel cassetto giustizia sociale e politiche ridistributive. Questa visione, costruita in sintonia con Roma e Madrid, ha anche contribuito ad ammorbidire le resistenze di Berlino. Ma per i francesi è sempre troppo o troppo poco: «il presidente pensa all’Europa e non a noi…».


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