Il Sahara avanza e adesso minaccia le città
N’DJAMENA. L’erba spuntata a giugno rende felici le capre e le file di dromedari che da N’Djamena puntano verso Nord, attraverso un Sahel che si è all’improvviso tinto di verde e riempito di pozze d’acqua. Ma l’apparente serenità dello scenario è un miraggio. Proprio adesso, mentre l’intensità delle piogge gonfia i wadi, letti di torrente completamente secchi per la maggior parte dell’anno, nel Ciad scatta l’allarme carestia: arrivare al prossimo raccolto non sarà facile.
Le annate di siccità drammatica sono diventate molto più frequenti (3 negli ultimi 7 anni) e hanno azzerato le scorte alimentari. Le greggi sono indebolite. La stagione delle piogge si fa sempre più corta e irregolare. I raccolti del 2011, dimezzati rispetto all’anno precedente, sono già spariti dai magazzini e i prezzi dei cereali sono cresciuti del 40 per cento. Non è ancora carestia ma si è già entrati nell’area critica: nella fascia del Sahel oltre
18 milioni di persone – di cui 3,6 solo in Ciad – sono a rischio. Dopo aver vinto la battaglia a Est, guadagnando una stagione di tranquillità sul confine del Darfour, N’Djamena sta perdendo la guerra sul fronte Nord: in poco più di due decenni il Sahara ha occupato una fascia di 200 chilometri e continua ad avanzare. Abéché, la seconda città del Ciad, si trova ormai a 150 chilometri dal deserto che ha già conquistato Arada, fino a pochi anni fa ultimo avamposto del Sahel. «Nel paese la media delle piogge è passata da 700 a 500 millimetri l’anno e nella zona di confine con il Sahara la situazione è diventata insostenibile », spiega Mahamat Abakar, direttore di Oxfam, l’associazione che ha lanciato la campagna contro la crisi alimentare nel Sahel. «I cambiamenti climatici stanno accelerando il processo di desertificazione e moltiplicano le tensioni sociali».
Il Ciad si è ristretto, cedendo spazio alle distese di sabbia che ora occupano una buona metà del paese, e la competizione per lo spazio utile è diventata
dura. Il primo conflitto a scoppiare è stato quello tra il milione e mezzo di pastori nomadi e i contadini: la siccità ha costretto ad anticipare di un mese il momento della
transumanza di ritorno verso le zone meno secche e così le greggi si muovono a ottobre, nel periodo in cui il lavoro nei campi non è ancora concluso. Il secondo motivo di tensione deriva dalla fuga dalle campagne, sempre più inospitali, verso città che crescono all’insostenibile ritmo del 10 per cento l’anno.
«Il risultato di questo concentrarsi di pressioni si ripercuote su tutto il paese: il lago Ciad ha perso nove decimi della sua superficie a causa dell’abbassamento della falda freatica e del sovra sfruttamento del terreno», ricorda Djimramadj Alrari, esperto ambientale della Fao. «La natura cerca di adattarsi come può, ma il ritmo di cambiamento è troppo veloce: anche le acacie, le ultime a cedere, alla fine sono costrette a lasciare il posto alla sabbia».
È uno stravolgimento climatico che colpisce con maggior violenza i più deboli. In Ciad, su una popolazione complessiva di 11 milioni di persone, i bambini che rischiano di morire di fame sono 127 mila. Li hanno contati usando un sistema molto semplice: una fettuccia di plastica che si avvolge attorno al braccio dei bambini di età compresa tra i 6 e i 23 mesi. Da 12,5 a 26 centimetri di circonferenza questo metro sanitario segna verde: tutto a posto. Tra gli 11,5 e i 12,5 centimetri è giallo: l’alimentazione va migliorata. Sotto gli 11,5 centimetri si entra nell’area marcata in rosso: il bambino va portato in ospedale. Solo nel Guera più di 2 bambini su 10 mila muoiono ogni giorno per malnutrizione. In tutto il Sahel sono 300 mila all’anno.
La politica degli aiuti alimentari serve a ridurre i danni dell’emergenza, non può compensare la spinta devastante del caos climatico che si somma alla crescita continua della domanda di acqua, cibo, suolo fertile. Servono interventi strutturali dei governi, azioni di riequilibrio ambientale, ma il progetto faraonico di una barriera verde lungo tutto il Sahel rischia di restare una linea fantasma sulla mappa.
Se invece un decimo dei fondi destinati agli aiuti venissero spesi in modo più mirato, sostiene Mahamat Abakar, si potrebbero raggiungere risultati duraturi. Ad esempio si potrebbe collegare l’assistenza agli abitanti dei villaggi vicini al deserto al loro contributo alla difesa di alberi da far crescere con i sistemi adoperati per creare oasi nel nord Africa, come le gallerie sotterranee capaci di catturare la condensazione che di notte si forma sulle pietre. Questo metodo, in alternativa a pozzi sempre più profondi, evita di intaccare il capitale idrico delle falde di acqua fossile, quella che non si ricarica con le piogge. Un rimedio esiste, ma per ora nessuno lo prescrive.
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