PAURA ALL’ITALIANA

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La situazione fa paura. Sembra molto ragionevole sostenerlo. Ma di quale paura si tratta? Sappiamo da tempo che una parola al di fuori della proposizione non significa nulla. Anche la paura si dice in molti modi – e in particolare da noi, qui in Italia, sarebbe importante riconoscerlo. Possibile che gli italiani siano improvvisamente assaliti dalla paura per il futuro? Nessuna nazione ci ha pensato di meno; nessuna ne ha trattato l’idea con più sovrano distacco, con più profondo disincanto. Ciò che non sta a portata di mano, qui-e-ora, è sempre stato considerato, dalla stragrande maggioranza dei nostri concittadini, oggetto di oziose speculazioni. I non-nati non sono, e basta. Pagare le tasse per loro? Riformare per loro partiti, istituzioni, amministrazioni? Sentirli come i nostri più prossimi? Ma non è
nella natura delle cose! Qui non si fa “filosofia”… E allora? Quale paura oggi ci sorprende tanto da minacciare il nostro cinismo nazionale? È il prodotto di un sentimento di assoluta impotenza ad affrontare adeguatamente la crisi?
Non sarebbe giusto affermarlo. Il nostro non è un pavidus metus, una paura che paralizza, che abbatte ad uno stato di prostrazione (potrebbe pavere, aver timore, avere la stessa radice di pavire, da cui pavimen-to?!). Tutti ci difendiamo. Chi prima non aveva alcuna cura del futuro, e continua a non averla, difende il proprio interesse – e molti, per fortuna, con intelligenza. La paura non rende pavidi gli italiani. Ma è all’antica arte dell’arrangiarsi che si fa ancora ricorso. Forse un barlume strategico è presente nell’azione del governo Monti – ma annaspante tra diecimila vincoli e compromessi. Dunque, la nostra paura non ci fa pavidi, ma neppure
meticulosi.
Non è, cioè, traduzione di quel metus che sa rendere attenti, precisi, scrupolosi, capaci almeno di affrontare seriamente e con coerenza i pericoli del momento.
Penso che questa forma della paura ci sia lontana perché del tutto estranea al nostro genius loci è quell’altra, che risuona nel termine timore. È il temere ciò di cui si ha rispetto, che rende timidi e pudichi nei confronti di ciò che si onora e che è degno di onore (timios).
È la paura di offendere ciò che avvertiamo superiore. Ha quindi a che fare con il conoscere e il ri-conoscere un altro, che ha comunque potere su di noi. Da questo timore siamo del tutto liberi, propensi come forse nessun altro popolo a ritenerlo vana superstizione (non precisamente per i motivi per i quali Lucrezio considerava tale il
timor deorum!).
Sull’assenza da noi di questa forma della paura nulla c’è da aggiungere, dopo due secoli, al Discorso leopardiano sui costumi degli italiani. E, dunque, se non è paura da pavere, se neppure è terrore-tremore che paralizza, se non è quel temere che spinge all’osservazione e al calcolo, e tantomeno timor – quale paura ci affligge?
È uno stato di incertezza e incostanza, una situazione di dubbio che genera tristezza. Più della paura, è una grigia tristezza a caratterizzare il momento.
Non malinconia, si badi!, che è fecondo grembo dell’immaginazione – ma una passione fredda – quella di chi non sa più “far tornare i propri conti”, “mettere a profitto” le risorse che crede di avere. È una paura che, a differenza di quella di cui parlava Spinoza, sembra aver smarrito il proprio legame con la speranza – anche
se lontana dal diventare disperazione (la disperazione è di chi sa, di colui che è persuaso del proprio fallimento – non dell’egoista dubbioso e incostante).
Questa paura non può certo condurre a fare il bene. In realtà , nessuna forma di paura lo può – poiché il bene lo si compie per la potenza dell’animo, e per amore della sola virtù, mentre la paura è comunque segno di impotenza (Ethica, IV, propp. LXIII; App. cap. XVI). E tuttavia potrebbe anche da essa generarsi, oggi, un movimento di
una certa utilità , se si riuscisse a congiungerla con qualche forma di umile ravvedimento – se servisse a sollecitare i “padri” a una considerazione auto-critica dei disastri commessi, e i “figli” a voler davvero prendere in mano il proprio destino, responsabilmente, senza versare lacrime sul passato, o continuare ad esigere da chi probabilmente nulla ormai è più in grado di dare. «Poiché raramente gli uomini vivono ex dictamine rationis, questi due affetti, Humilitas et Poenitentia, e oltre ad essi Spes et Metus arrecano più utilità  che danno. Se, infatti, gli uomini, impotenti nell’animo, fossero anche tutti superbi, di nulla si vergognassero e di nulla avessero paura, da quali vincoli potrebbero essere congiunti e stretti insieme?» (Spinoza, Ethica, IV, Prop. LIV, scholium).
Che la paura di oggi possa rappresentare la cruna dell’ago attraverso cui inizi a formarsi da noi l’idea di una unità  nazionale, di un essere federati insieme di fronte al comune pericolo? O, invece, per essa, ne verrà  il colpo mortale? Questo è il vero dubbio di fronte a cui ci troviamo. E poiché “peccare” appartiene alla nostra natura, affrontiamolo almeno con meticulosa speranza.


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