Clinton, il ruggito del Re Leone l’elogio di Barack in nome di Hillary

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COME sa ancora ruggire, Bill il vecchio «Re Leone» canuto, quando sente che il branco è minacciato, quando mette da parte le antipatie, le ruggini, le offese alla propria leonessa Hillary e sale sulla roccia per difendere colui che detesta e che abbraccia, Obama.
SONO bastati quarantanove minuti di discorso, naturalmente molti più della mezz’ora prevista perché lui non ha mai rispettato un orario in vita sua, sotto la tende del circo Democratico a Charlotte, per scatenare la nostalgia anche di chi lo aveva odiato e aveva cercato di buttarlo fuori dalla Casa Bianca agitando mutande e rossetti. William Jefferson Clinton Blythe III, «Bubba», il figlio di un’infermiera un po’ chiacchierata e probabilmente di un commesso viaggiatore alcolizzato e morto in auto contro un palo nel misero Arkansas, è ancora il fuoriclasse che nelle democrazie viventi la politica sa produrre, ogni generazione. Gli uomini, in attesa della prima donna, che come i Roosevelt, i Kennedy, i Reagan, lasciano sulla sabbia della politica un’impronta indelebile, come i «moon boot» di Neil Armstrong sulla Luna.
Una settimana fa, a Tampa, i repubblicani avevano esumato un altro grande vecchio, Clint Eastwood, nello sketch della sedia vuota, per colmare quel vuoto di comunicativa, di carisma, di spettacolo, che né Mitt Romney, nella sua vuotaggine umana, né il vice Paul Ryan, nella sua limitatezza ideologica, avrebbero potuto riempire. Sapevano, i repubblicani, che gli avversari democratici avrebbero mandato in pista un leone come «Bubba » Clinton, qualcuno capace di combinare l’oratoria con il carisma, i numeri con la seduzione, l’umorismo con la polemica. Un ex presidente che avrebbe potuto dire, come ha fatto Clinton, «io so di che parlo», io «ci sono stato in quella Casa Bianca», «io ho portato l’America a otto anni di pace, di prosperità , di bilanci pubblici quadrati, di attivo nel debito nazionale» e dunque posso dirvi, per
esperienza, che Barack Obama è colui che ha raccolto il mio mantello. Non può essere licenziato o giudicato a metà  dell’opera «dopo l’orrendo pasticcio che ha ereditato da chi vorrebbe riportare al potere proprio coloro che lo produssero».
Mentre i repubblicani dovevano nascondere George W Bush, tenuto fuori dal loro tendone e invisibile come uno zio impresentabile alle cene di famiglia, i democratici avrebbero potuto esibire l’icona di un felice passato, che ormai il tempo, la canizie dell’uomo esibita con orgoglio senza il lucido da scarpe che Mitt Romney si spalma sui capelli, e la smemoratezza delle folle hanno purgato dai peccati e, forse, dalle voglie. Ci aveva lavorato tutta l’estate, Clinton, al discorso, chiuso in una casa al mare insieme con la moglie e con il suo prediletto Terry MacAuliffe, già  manager della campagna perdente di Hillary contro Obama, ma ancora grande «consigliori» del clan clintoniano.
Quando gli obamiani gli avevano offerto il «prime time» nella penultima giornata della Convention, relegando la nullità  politicante del vice presidente Joe Biden – peraltro confermato per acclamazione nel suo ruolo per la seconda candidatura in ticket con Obama alla Casa Bianca – allo strapuntino di un altro orario, lui sapeva che gli avevano teso una trappola dorata. Se fosse stato troppo tiepido verso il successore, lo avrebbero sbranato, con la ovvia accusa di voler far pagare il conto a Obama dell’umiliazione inflitta nel 2008 a quella donna, Hillary, che nell’anno di Monica gli salvò la criniera, rimanendo con cinico stoicismo coniugale e politico al suo fianco. Se avesse ecceduto nell’adulazione, la stessa signora lo avrebbe divorato. Un uomo preso in mezzo tra la moglie e il partito, è in una posizione un po’ scomoda.
Lo avevano, di nuovo, sottovalutato. Non è più il ragazzone appesantito dalla passione per i cheeseburger e oggi smagrito da tentativi di dieta vegetariana. La testa con la chioma sale e pepe, che avevo accompagnato nel pellegrinaggio della sua prima campagna elettorale impossibile del 1992, con le note ossessionanti di «Don’t stop thinking about tomorrow» dei Fleetwood Mac a ogni sosta (e le hanno fatte sentire anche alla Convention) è candida.
Il seduttore che riusciva a far sentire donna con la quale parlava per pochi secondi come il centro dell’universo, premessa sicura di ogni seduzione, l’attore che sapeva arrochirsi la voce per «sentire il tuo dolore», è stato portato via dagli anni, dai bypass coronarici, dai medici. Ma è bastato che uscisse sul palco, che puntasse il dito ormai un po’ tremulo contro gli avversari, perché la corrente fra lui e la folla si riaccendesse. Con una battuta ha neutralizzato la tensione fra lui e Obama: «Il presidente è un uomo che non porta rancori, che vuole governare con tutti, non contro. Ha nominato ministri repubblicani, ha scelto collaboratori che avevano fatto campagna per Hillary…. (pausa a effetto)…. e, che diamine, ha persino nominato Hillary ministro». Risate e ovazioni. Caso chiuso. Neppure io, voleva dire il maestro, porto rancori.
La lontananza della moglie, che si è inventata una missione in Asia proprio durante il congresso mentre il marito parlava, non faceva più scandalo, perché il Re Leone aveva licenziato ogni dubbio di dissenso interno o di lotte fra correnti, in vista del futuro. E non è l’abbraccio d’ordinanza che ha brevemente legato «Billy Bubba» e «Barry», come Barack era chiamato da ragazzo, alla fine, il solito cauto contatto un po’ di sguincio fra maschi americani, per evitare ogni sospetto di frizione fra zone inquietanti dei loro corpi, a suggellare la riconciliazione.
L’abbraccio c’era stato anche a Denver, quattro anni or sono, è soltanto teatro. Clinton ruggisce per Obama, ma anche per sé e per la propria ultima carica, l’assalto alla Casa Bianca nel 2016 nel nome della moglie, il debito finale da saldare con lei. Il maestro della «triangolazione », come fu chiamata, di dire una cosa per farne un altra, di giocare di sponda, come al biliardo, ha deciso che conviene al proprio clan che Barack sia rieletto. O che, se dovesse essere cacciato, la colpa non ricada sui clintoniani. Ha raccolto 25 milioni di americani davanti alla tv, ha già  ricevuto e accettato gli ordini di marcia, per fare comizi e comparsate pro Obama nei 60 giorni che ci separano dal voto del 6 novembre. Il partito Democratico è mio, ha ruggito, ma te lo presto anche per questa volta, che sarà  comunque l’ultima.
Clinton ha stracciato Clint. Da vero leone ha marcato il territorio che gli appartiene, quello del partito che, scomparsi i Kennedy veri, ha ormai soltanto lui come icona e mito. Molto difficile, per Obama, fare meglio di lui questa sera. Se non ci fosse la Costituzione che limita a due mandati l’incarico, quest’uomo sarebbe ancora Presidente degli Stati Uniti. Invece, venne George W Bush.


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