La memoria corta

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Lo connota mezzo secolo d’una disciplinata e poco visibile carriera nel partito-Chiesa dove ai bei tempi pontificava Palmiro Togliatti, Talleyrand rosso: nessun sospetto d’eresia, chierico fedele; estinta Mater Ecclesia moscovita, naviga nella scia postcomunista. Aveva presieduto la Camera e guida gl’Interni, passandovi sine strepitu: diventa senatore a vita; che sia statista d’anima liberale, è avventato supporlo. Quando gli ex compagni tornano al governo in coalizione suicida, sale al Quirinale, figurando meglio dei concorrenti. In capo a due anni l’Affarista riprende lo scettro governativo sulle ali d’una maggioranza bulgara, deciso a rifondare lo Stato in signoria personale: il primo passo è l’immunità , necessaria a chi, trascinando vari conti penali, s’avventura ancora pericolosamente; vuol essere persona «sacra e inviolabile» (lo erano Carlo Alberto e successori, articolo 4 dello Statuto).
La congiuntura climaterica richiede un uomo dalle idee chiare, risoluto contro la deriva piratesco-plebiscitaria, e sotto tale aspetto gli manca qualcosa: sta bene schivare i traumi; ogni tanto però appare inerte, quasi fosse timido o non avvertisse i pericoli. Era scelta malaccorta immischiarsi nel cosiddetto lodo Alfano, risuscitando un privilegio immunitario affossato dalla Consulta: la stessa sorte tocca al precario redivivo; affiora una punta d’ira nella stupita nota emessa dal Quirinale. Siccome Palazzo Madama riacconcia la soperchieria nel ddl costituzionale 2189, una lettera 22 ottobre 2009 «formula profonde perplessità », e non perché sia biasimevole mettersi au dessus de la loi: questa terza versione affievolirebbe l’immunità  processuale che rivendica per sé ex art. 90 Cost.; opinione insostenibile, né esistono prassi in tal senso (vedi Alessandro Pace, nel «Mulino», 2012, 24-34, 58-60). Quanto alle «larghe intese» che assiduamente predica, il punto è dove miri l’impresario d’affari oscuri: avesse mano libera, saremmo repubblica peronista in peius (al posto del generale, un plutocrate stregone del medium televisivo, attivo dovunque pulluli denaro); e il paese drogato accumula debiti. Gianni Letta va e viene benedicente tra Palazzo Grazioli e Monte Cavallo. In alto loco disturbano i discorsi sul notorio morbo italico, quasi fosse disfattismo. Grazie al Cielo, Berlusco ormai infelix butta via la messe elettorale con vari passi falsi, incluse le notti d’Arcore, segnale d’una lugubre débà¢cle, così percepita dal pubblico; perdente in casa, alle urne milanesi, affoga nella crisi economica, svelandosi inetto fuori delle scorribande sotto bandiera nera; chi fosse, era evidente al primo sguardo. Stavolta il Presidente agisce comme il faut, imponendo le ormai inevitabili dimissioni, decretate dalle borse: eravamo a due passi dalla bancarotta; e installa un governo cosiddetto tecnico. Ben fatto.
Il solstizio d’estate porta tempeste politiche. Pubblici ministeri palermitani indagano sui negoziati che vent’anni fa uomini dello Stato conducevano con la cupola mafiosa, gratificata d’ampi favori, e un ex ministro degl’Interni, nonché vicepresidente del Csm, testimone sospetto, poi incriminato, arremba negli appelli al Quirinale invocando una tutela indebita: il caso vuole che i suoi telefoni fossero sotto controllo; le parole d’un consigliere scoperchiano interni poco lodevoli. Due volte risuona la Voce ma poiché i contenuti risultano irrilevanti, nastri e verbali restano segreti: spetta al giudice delle indagini preliminari disporre l’eventuale distruzione, sentite le parti private; è procedura codificata. Qui il Presidente insorge: l’intrusione ledeva spazi inviolabili; l’intero flusso verbale è tabù (vocabolo d’un lessico primitivo, tale essendo anche l’idea); materiale del diavolo, da incenerire a porte chiuse, e honny soit chi avendo udito o visto qualcosa, ne parli. Dirlo non costa niente ed esclamativi corali lo ripetono, senonché il discorso giuridico ha regole ferme, specie negli ordinamenti a fonti chiuse. Vanno col vento i canti ad laudandum dominum contro ermeneutica e sintassi, malviste dai cultori del potere. L’escalation culmina nel conflitto davanti alla Consulta. Deve essersi acceso un lume tra gli apologeti, infatti smussano le punte: a parte qualche armigero tardivo, nessuno grida più che l’ascolto fosse abuso o addirittura eversione; la parte pubblica applica norme vigenti, ammettono i cauti, quindi niente da obiettare; dica la Corte se esistono lacune e come rimediarvi. Gli eufemismi sottintendono l’augurio d’un epilogo dolce, quale sarebbe desistere dal ricorso, ma affermandosi «inviolabile» s’era molto esposto, forse troppo. Comunque vada, la partita finisce in perdita secca.
Siamo nel paradosso del medico untore: il governo dipende da una molto anomala maggioranza, dove l’unico interessato alla malora veste da «patriota statista»; e in casi simili le difese cominciano dalle idee chiare. Chiamate alle armi contro i fantasmi, invece, confondono i quadri. Chiude il memento una notizia insistente: che tra i possibili senatori a vita (uno eligendus est) il favorito sia Gianni Letta: nella compagnia d’Arcore è gentiluomo dal sorriso cardinalesco, consigliere intimo del Re Lanterna, ciambellano, plenipotenziario; figura d’ancien régime, sarebbe perfetto con parrucca, cipria, lorgnette. Dio sa quanti negozi gli passino sotto mano. Titoli ragguardevoli ma l’Italia dista un oceano dalle Antille, né al Quirinale siede l’Olonese (vi puntava e non sarebbe lui se, vistosi nello specchio morale, desistesse dalla corsa): l’articolo 59 Cost. richiede «altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e [rectius “o”] letterario; sarà  arduo dire, sfidando i sogghigni, in qual modo abbia «illustrato la Patria».


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