La lunga attesa di New Orleans “Noi che viviamo con gli uragani”
NEW ORLEANS – Quando manca poco all’arrivo di Isaac il Quartiere Francese — il vecchio cuore di — è quasi deserto. Una calma quasi irreale ha preso il posto della pioggia battente e del vento che avevano segnato le prime ore dell’alba; anche il suonatore di tamburo che aveva accolto i primi mattinieri passanti ha lasciato la sua postazione davanti al Ritz Carlton, hotel sprangato in ogni ingresso e con poco credibili sacchetti di sabbia davanti porte e finestre.
Nell’area turistica, abituata a vivere fino alle ore piccole, la notte tra lunedì e martedì è stata stranamente silenziosa. In queste strade, esattamente sette anni fa, l’uragano Katrina ha seminato morti e feriti, violenze e ruberie, stupri e storie da libro Cuore. Il ricordo, per chi è sopravvissuto a quell’inferno, è troppo recente per essere rimosso ma Jane, che esce da un piccolo supermercato — ancora aperto ma con gli scaffali quasi vuoti — non se la sente di rivangare: «Sono successe delle cose orribili, per fortuna adesso è tutto diverso. Oggi e per i prossimi due giorni è comunque meglio starsene chiusi in casa».
Mentre nei sobborghi della Great New Orleans a migliaia sono fuggiti tra domenica e lunedì, intasando le strade alla ricerca di una casa sicura nel-l’entroterra, in città sono relativamente pochi (un venti per cento azzardano al Comune) quelli che hanno scelto di andarsene e del resto il sindaco Mitch Landrieu (democratico) ha evitato ogni allarmismo. Gli altri si barricano in casa, con provviste per tre giorni e grandi pacchi di bottiglie d’acqua venduti per pochi dollari.
La maggioranza si sente sicura e in salvo al riparo delle proprie case. Negli ultimi sette anni — dopo quel terribile 29 agosto 2005 — tra fondi federali e statali a New Orleans sono stati spesi 25 miliardi di dollari per la sicurezza. A cominciare dalle levees, le chiuse miseramente crollate e causa principale della tragedia. Per gli ultimi della terra, i poveri che non hanno una casa decente o non l’hanno proprio, l’unica salvezza sono gli shelter, i rifugi messi a disposizione dal comune. Niente Superdome (lo stadio dei Saints) questa volta, niente Convention Center. Landrieu è stato categorico. Troppe violenze e troppi crimini c’erano stati nel 2005.
John White ha scelto il St. Jude, al numero 400 di North Rampart Street, davanti alla chiesa di Nostra Signora di Guadalupe. Voleva andare un paio di blocchi più in là , alla Covenant House, ma lì le regole sono tassative: solo ragazzi e ragazze tra i 16 e i 21 anni e le donne con bambini di ogni età . Il St. Jude sta per chiudere, Isaac non è più tempesta tropicale ed è ufficialmente diventato un uragano, non c’è più tempo da perdere.
Jackson Square si è svuotata degli abituali artisti di strada, non c’è fila davanti al Café du Monde e la Jax Brewery ha chiuso i battenti già da lunedì pomeriggio. Qualche cameriere di fast- food si attarda a fumare davanti alle porte con la saracinesca mezza abbassata, un’auto su due che passa è della polizia. Anche tra i pochi passanti le divise sono in maggioranza. Questa volta le forze dell’ordine non intendono farsi prendere di sorpresa, al primo accenno di rissa sono pronte a scattare le manette. «Giornalista? Potete stare tranquilli. L’unico consiglio che vi do è di tornarvene presto in albergo e di non uscire stasera. Il vero problema sarà la pioggia, può arrivare nel giro di 48 ore anche a 40 centimetri».
Un quarto d’ora di macchina con traffico inesistente e si arriva al Lower Ninth Ward, il più esteso dei 17 distretti di New Orleans dove fino a Katrina viveva il maggior numero di neri poveri della città . Percorrendo St. Cloud Avenue appare chiaro come qui siano arrivati solo pochi spiccioli dei miliardi della ricostruzione. La vecchia casa in legno dipinto d’azzurro molti decenni fa doveva essere uno splendore, adesso sulla porta sprangata del negozio di ceramiche che Katrina ha fatto fallire c’è solo un cartello, “coming soon”, torniamo presto. Probabilmente è lì da sette anni esatti. Ed anche la vecchia Buick arruginita e senza targa, modello “anni ruggenti” non si è più mossa da allora.
Dopo Katrina che lo aveva già praticamente distrutto, il Lower Ninth Ward è stato colpito anche dall’uragano Rita, solo un mese più tardi, ed è diventato il simbolo per eccellenza della tragedia di New Orleans 2005. Svoltando su Tennessee, strada sterrata e piena di buche il paesaggio edilizio cambia improvvisamente. Solo case nuove, sollevate da terra a sembianza di palafitte, con i piloni in cemento armato, una diversa dal-l’altra, alcune disegnate da grandi maestri dell’architettura come Frank Gehry e Hitoshi Abe.
In queste strade nel 1994 Brad Pitt e Tom Cruise avevano girato “Intervista con il vampiro’ e due anni dopo Katrina proprio Brad Pitt diede vita al progetto “Make it right”, per costruire 150 case — ecosostenibili, sicure ed autosufficenti per l’energia per ridare un’abitazione alle povere famiglie sfollate, falcidiate tutte (ognuno ha uno o più morti tra fratelli, genitori, figli, nipoti) dalla tragedia Katrina o dalle pistolettate delle gang di quartiere.
A poche ore dall’arrivo di Isaac anche il Lower Ninth Ward è deserto, le chiese battiste sprangate, un paio di macchine che evitano le buche profonde, finestre della case ermeticamente chiuse. Solo Gloria Guy — 72 anni nota perché la sua storia è finita sui giornali e le tv nazionali — è affacciata in cima alle scale e accoglie gentilmente chi vuole parlare con lei. Dentro casa un vero e proprio altarino con foto di morti. Quasi nessuno per Katrina, quasi tutti uccisi da pallottole più o meno vaganti. Anche lei non ha paura del nuovo uragano in arrivo, «in questa casa mi sento sicura », spiega col tipico accento cantilenante del sud elencando gli otto tra figli, nuore e nipoti che vivono con lei. «Sì, sì, anche i vicini sono quasi tutti rimasti».
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