Attacchi salafiti, si dimette il ministro degli interni Abdelali

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Il neo presidente del Congresso nazionale, l’islamico moderato Mohammed Magarief dopo la devastazione ha aperto un’inchiesta sull’operato – oltre che del ministero degli Interni – anche di quello della Difesa, ciò in seguito alle proteste da parte dei membri del Congresso rivolte ai ministri dei due dicasteri per non essere stati in grado di prevenire e gestire l’attacco salafita. «Le dimissioni sono un segno di protesta contro le critiche del Congresso e una forma di protezione verso i rivoluzionari» ha spiegato il portavoce degli Interni. Le accuse del Congresso infatti erano rivolte all’Alta commissione di sicurezza, un organo nato dal reclutamento di ex combattenti della rivoluzione che lo scorso anno hanno messo fine al regime di Gheddafi. 
Dopo l’«incidente» il ministro degli interni aveva motivato il suo rifiuto di «intervenire» per evitare l’insorgere di nuove violenze. «Le forze governative si sono concentrate a prevenire scontri tra i demolitori del santuario e chiunque tentasse di impedirne l’azione» ha spiegato Suleiman Zudi, un membro del Congresso originario di Bengasi, il quale tuttavia nega le voci della Reuters secondo cui il ministero degli Interni stesso avrebbe «autorizzato» a procedere in seguito alla diffusione di presunte pratiche poco ortodosse legate alla «magia nera» che sarebbero state messe in atto dai fedeli Sufi del santuario.
Polemiche a parte, l’incidenza delle autorità  governative sul caso è stata piuttosto carente se si esclude una rapida comparsata sul luogo dell’assalto dell’ex segretario del Partito liberale di Mahmoud Jibril e attuale membro indipendente del Congresso, Abdurrahman Shater. Una escavatrice del ministero degli interni ha poi terminato l’operazione di demolizione ostacolata da decine di manifestanti che ne proibivano l’avanzamento. Scontri tra salafiti e manifestati nei pressi del luogo di culto tripolino hanno portato anche al linciaggio e rapimento di un Imam, le cui generalità  restano sconosciute, che cercava di persuadere i salafiti del gesto anti islamico che, con la demolizione del santuario, si accingevano a compiere. 
L’assalto nella capitale libica cade a due giorni dal grave attacco salafita nella città  di Zlitan, 160 km a sud est di Tripoli, dove la tomba del mastro Sufi Abdel Salam al-Asmar, vissuto nel XV secolo, è stata profanata da chi considera i Sufi null’altro che degli idolatri. L’incidente, a Zlitan, fa seguito ad una due giorni di feroci scontri tra tribù locali contrapposte, gli Al Haly ed i Al Fawatra. Dodici persone, nel corso dei combattimenti, hanno perso la vita e quaranta sono rimaste ferite.
E ancora, una settimana fa, a Tripoli, due persone erano rimaste uccise in seguito all’esplosione separata di tre autobombe nel bel mezzo delle celebrazioni dell’ Eid al-Fitr, la festa per la fine del Ramadan, mese sacro all’Islam durante il quale i fedeli praticano il digiuno dall’alba al tramonto. In quell’occasione la colpa era stata attribuita a improbabili fedeli del vecchio regime. 32 lealisti di Gheddafi sono stati arrestati. Un ufficiale della Commissione suprema di sicurezza, secondo la Reuters, aveva parlato di «connessioni» tra gli arrestati e gli attentatori. Le bombe sono esplose di fronte al ministero degli interni e al ministero della difesa. Gli attentati – i primi di questo genere che hanno seminato vittime dopo la caduta del regime – sono comunque serviti a rilanciare in Libia la fobia antigheddafiana. Ora sembra che il Paese debba invece fronteggiare un nuovo pericolo, reale: quello dell’islam radicale, scongiurato alle urne ma evidentemente intenzionato a far valere le proprie ragioni «sul campo».


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