“Volevo uccidere di più” L’ultima sfida di Breivik dopo la condanna a 21 anni

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OSLO â€” La tensione è esplosa come il lampo in un’atmosfera carica di elettricità , proprio alla fine, dopo sette ore e mezza di udienza. Anders Behring Breivik, l’autore della strage di Utoya, giudicato sano di mente, condannato a ventuno anni di reclusione, ha avuto diritto di parola. Ha detto che non riconosce la legittimità  del tribunale.
Poi ha accennato una frase che i presenti hanno interpretato come «chiedo scusa ai militanti nazionalisti in Norvegia e in Europa per non aver ucciso un maggior numero di persone ». Ma non è riuscito a finirla, il suo microfono si è spento. La giudice Wenche Elizabeth Arntzen ha interrotto il condannato, la mascella serrata, lo sguardo durissimo, un tremito nella voce. Ha lasciato solo che l’avvocato di Breivik confermasse: non ricorrerà  in appello. E la seduta si è chiusa. Attimi, gli unici che abbiano
alterato l’algido rituale del diritto, una lettura interminabile della fattispecie del crimine seguita all’annuncio della sentenza con cui l’udienza si era aperta. Un lento accumularsi di orrore, la lettura spietata di tutti i nomi, tutti i cognomi, tutti gli anni di nascita delle 77 vittime. Tutti gli Anders e le Hanne, gli Henrik e le Monica, i Sondre e le Silje. Tutti i numeri dei proiettili di pistola e di carabina con cui furono abbattute, il 22 luglio dell’anno passato. La parola skudd, che vuol dire «colpo» e si pronuncia con la «u» molto chiusa, ripetuta un numero intollerabile di volte. Ragazzi e ragazze del ‘93, del ‘94, del ‘95 ammazzati con un solo colpo ma con due ferite, una alla mano e una alla testa, perché colti in un gesto estremo e vano di autodifesa. Altri cui il proiettile è entrato dalla bocca, uccisi a bruciapelo mentre emettevano l’ultimo grido, come il celebre quadro del norvegese Edward Munch, del 1893, che si conserva in questa città  di Oslo e oggi appare una terrificante profezia.
Il pubblico ascoltava ammu-tolito, i pm, gli avvocati di parte civile, i poliziotti non muovevano un muscolo, e Anders Behring Breivik nel suo completo scuro e la sua funebre cravatta grigia a pois neri, impassibile quale lo si è sempre visto, prendeva ogni tanto un appunto, come trovando inediti motivi di interesse in quel che aveva fatto. Il dilemma della vigilia, se l’imputato sarebbe stato giudicato pazzo, dunque irresponsabile, oppure capace di intendere e di volere e perciò colpevole, si è sciolto appena due minuti dopo l’ingresso della corte. Anders Behring Breivik ha accolto il verdetto con un sorriso sbieco di soddisfazione: essere condannato era ciò che voleva. Paradossale processo, in cui la pubblica accusa chiede una dichiarazione di infermità  mentale e il reo confesso rivendica invece la razionalità  del suo mostruoso crimine; e in cui la grande maggioranza della pubblica opinione — tre norvegesi su quattro secondo l’ultimissimo sondaggio — vogliono la stessa cosa dell’uomo che odiano più di ogni altro. La decisione dei giudici è stata accolta con sollievo generale, a cominciare dai parenti delle vittime, che avrebbero considerato l’altra scelta una forma di assoluzione. Pochi minuti dopo la chiusura dell’udienza, anche il Pubblico ministero ha annunciato che non farà  appello. La sentenza è dunque definitiva. Il mondo si stupisce che l’ordinamento norvegese non preveda una pena maggiore dei 21 anni di reclusione, di cui soltanto i primi dieci, per giunta, non possono essere ridotti. Passato quel tempo, il condannato potrà  cominciare a chiedere una diminuzione della pena. Ma se non si sarà  pentito, o verrà  considerato ancora pericoloso, resterà  in prigione. E anche dopo 21 anni, se i magistrati riterranno queste condizioni ancora valide, la pena verrà  prolungata, di cinque anni in cinque anni. Questa modularità , ispirata al principio della riabilitazione dei colpevoli, è parte di quel sistema norvegese basato sulla tolleranza e la liberalità  contro il quale Anders Behring Breivik ha aperto il fuoco a Utoya. Oggi non c’è nessuno, nelle carceri della Norvegia, che stia ancora scontando una condanna a 21 anni o sia stato trattenuto dietro le sbarre al suo scadere. Ma nessuno aveva mai fatto strage di 77 uomini, donne, ragazzi, ragazze, la più giovane una tredicenne, mettendo a esecuzione un piano preparato per nove lunghi anni e scusandosi poi, davanti ai suoi giudici, per non essere riuscito a uccidere di più.


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