Dai rifiuti alla ferrovia Acerra diventa simbolo di un Paese paralizzato

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ROMA — L’ha detto il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e l’ha confermato il governatore della Campania Stefano Caldoro: dietro il rogo di Acerra si scorge la mano della criminalità  organizzata. L’incendio delle 3 mila «ecoballe» di rifiuti destinate all’inceneritore è servito a farne sparire il contenuto? Oppure è un segnale «che non sappiamo comprendere», come ha dichiarato Caldoro?
E quale segnale è invece quello della ferrovia che avrebbe dovuto passare da Acerra e per cui, a quanto pare, ora si dovrà  cambiare progetto? Si tratta, ha detto Fabrizio Barca ad Antonella Baccaro del Corriere, di una «linea che deve favorire il collegamento tra i principali poli industriali del territorio, che rappresentano il 55 per cento dell’intero settore della meccanica del Sud Italia». Un’opera strategica, dunque. E nonostante sia stato «fatto in modo che qualsiasi decisione venga presa in merito nella Conferenza dei servizi, l’iter non si blocchi» a causa delle opposizioni materializzatesi contro l’attraversamento della città  perché, ha aggiunto il ministro della Coesione territoriale, «se entro il centinaio di giorni previsti il tracciato non verrà  approvato, scatterà  automaticamente quello alternativo, che è già  varato», la domanda è più che lecita. Che segnale è?
Per questo e altri interrogativi si potrebbe forse pretendere una risposta dalle diverse istituzioni locali, specializzate nei veti incrociati. Magari dai politici avvezzi a cavalcare per ragioni elettorali ogni protesta popolare: mai e poi mai capaci di mettere la faccia su una scelta vantaggiosa per l’intera collettività  se scomoda per qualche interesse particolare o di bottega, sempre prevalente. Ma una risposta sarebbe giusto chiederla anche ai singoli cittadini pronti a indignarsi contro chi gli vuole mettere sotto casa un impianto per lo smaltimento dei rifiuti o una stazione ferroviaria, però disposti ad accettare in complice silenzio l’aggressione della speculazione edilizia al nostro territorio.
Per capire come mai l’Italia sia un Paese paralizzato, nel quale ogni cambiamento è difficile, basta scorrere l’elenco delle cose che succedono, e anche di quelle che «non» succedono, ad Acerra.
La vicenda del contestatissimo inceneritore, per esempio. La A2A, società  che lo gestisce, informa che nei primi sei mesi del 2012 sono state smaltite in quell’impianto 290 mila tonnellate di spazzatura. Più o meno la quantità  di rifiuti che produce la città  di Napoli. Con questi ritmi, anche se quell’impianto venisse utilizzato solo per liberare la Campania dai milioni di «ecoballe» che si sono accumulate in oltre un decennio di emergenza, serviranno almeno 13 anni per liberare le centinaia di ettari di terreno una volta agricolo dove sono accatastate.
Questo, naturalmente, a meno di non riuscire a spedire l’immondizia in Olanda o in Germania dove la bruciano per produrre energia, come sta facendo il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Tredici anni sono più di quanti, moltissimi, siano stati necessari prima per decidere di costruire il «termovalorizzatore» e poi per realizzarlo. Ce ne sono voluti una decina. Dieci anni di proteste contro i pericoli di inquinamento, mentre l’Istituto superiore della sanità  documentava l’impressionante escalation di patologie gravi e gravissime causate dalle discariche (comprese quelle clandestine) nelle Province di Napoli e Caserta, dove la raccolta differenziata era inesistente. Dieci anni di blocchi stradali, ricorsi al Tar e controricorsi al Consiglio di Stato, decreti di sospensione dei lavori, inchieste giudiziarie, polemiche sui costi astronomici dell’operazione: 355 milioni 550.240 euro pagati a Impregilo con i fondi Fas per lo sviluppo del Sud. «Soldi che non creano alcun posto di lavoro, che non aprono un cantiere, non producono ricchezza», ha lamentato pubblicamente Caldoro. Per non parlare del conto indefinibile, ma certo gigantesco, dei ritardi. E dell’ombra inquietante della camorra che spesso ha fatto capolino in questa vicenda: unico soggetto che con l’emergenza rifiuti ci ha davvero guadagnato.
Come non bastasse, anche gli uomini di Chiesa hanno dato il loro fattivo contributo. Indimenticabile la grande marcia del febbraio 2003 contro l’inceneritore: alla testa dei manifestanti il vescovo di Acerra, Giovanni Rinaldi. Che scagliava parole di fuoco contro il termovalorizzatore: «Noi non siamo il colabrodo di Napoli!». E non è ancora finita. Di tanto in tanto la protesta riesplode, la strada si blocca e l’inceneritore pure.
Non si ricorda analoga determinazione contro il proliferare di orrende costruzioni, abusive e regolari, che mentre si infiammava la battaglia contro l’inceneritore sbranavano i terreni agricoli fra i più fertili del mondo. La sola attività  che non ha mai subito interruzioni per le proteste popolari o l’opposizione delle amministrazioni locali. Dice l’Istat che dopo quella di Monza la Provincia di Napoli è la seconda d’Italia per consumo del suolo. Il 43 per cento del territorio non è più naturale. Questo sì che è un segnale che non si può non comprendere.


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