La famiglia tascabile

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Le famiglie italiane sono sempre più piccole, microscopiche anzi. Tre, due, uno, questa è la formazione, gli altri restano fuori dalla porta. Addio clan, il nucleo si è scisso, diviso, “atomizzato” in mille forme nuove, e ognuno vive orgogliosamente sotto il proprio tetto. Felici? Forse, abbastanza, chissà . Figli o non figli la famiglia è diventata mini. C’è il nucleo di tre: mamma, papà  e un bambino. C’è il nucleo di due: si chiama “monoparentale” e vuol dire (ottanta volte su cento) che in quell’appartamento c’è una mamma-sola e un ragazzino da crescere. E poi ci sono i numeri “uno”: nuclei unipersonali dice l’anagrafe, ossia single, soli, in Italia quasi 5 milioni di persone, una valanga, a Milano rappresentano il 40% della popolazione cittadina, e insieme ai figli unici hanno
mutato per sempre relazioni, affetti, e regole del mercato.  Dal macro al micro. Nel 2011 dice il Censis, «il 35% di tutte le compravendite immobiliari ha riguardato case di taglio piccolo e monolocali». Una vera mutazione antropologica, spiegano i demografi. Negli anni Cinquanta in media un bambino italiano poteva contare su circa 30 parenti, tra nonni, zii e un mucchio di cugini. Oggi chi arriva a 10 è fortunato. Il cambiamento è stato lento, all’inizio, poi sempre più veloce, repentino, e in poco più di un decennio testimoniano i dati dell’ultimo censimento Istat, l’Italia è diventata il paese delle «mini famiglie ». Che sono cresciute di numero, passando dai 20 milioni degli anni Novanta ai 24 milioni di oggi, ma il numero dei componenti si è invece assottigliato, scendendo dai 2,7 di ieri, ai 2,4 di oggi.
Un mega-mini-mondo. Quattro nonni, pochissimi cugini. Dietro ci sono la fecondità  in picchiata (1,42 il tasso di figli per donna in Italia, 46,5% le coppie che hanno soltanto un bambino), i divorzi e le separazioni, gli anziani che vivono da soli. Ma anche una irresistibile voglia di autonomia. Più piccoli, più solitari, infatti, ma non per questo necessariamente più soli, ed è questa, dice Alessandro Rosina, demografo dell’università  Cattolica di Milano, la vera «anomalia italiana». «Se da una parte questa scissione in piccoli nuclei ci avvicina a modelli di vita da Europa del Nord, la differenza è che le relazioni familiari in Italia sono ancora molto forti. Si sta a distanza, non più sotto lo stesso tetto, ma il contatto e il mutuo-aiuto sono tuttora fondamentali».
Sveva e Giulia sono mamma e figlia, 40 anni la prima, dieci la seconda, vivono a Roma, in un piccolo appartamento del quartiere “Talenti”. Luce, sole, e il gatto Josè. «Quando ho comprato una casa nello stesso palazzo di mia madre, così, per fare un investimento, non credevo che poi sarebbe stata così importante. Invece dopo la separazione da mio marito sono rimasta sola con Giulia, e questo appartamento è diventato un approdo. E pensare che per anni non avevo fatto altro che viaggiare, fuggire, mettere distanze, volevo autonomia, indipendenza. Adesso — confessa Sveva — senza mia madre che si occupa di Giulia e la adora, non saprei come fare, visto che lavoro tutto il giorno. Però le due case sono fondamentali: c’è un momento in cui si chiudono le porte ed ognuno resta con la propria famiglia. Giulia ed io, e Clara, oggi single dopo la morte di mio padre, con i suoi libri, le sue amiche… «. Si chiama «intimità  a distanza » e sembra davvero un modo tutto italiano di concepire le relazioni familiari, se pensiamo che soltanto il 16% dei giovani quando esce di casa va ad abitare a più di 50km dalla famiglia d’origine, e che il 62% resta comunque nello stesso comune. Spiega Alessandro Rosina: «La morfologia della famiglia è cambiata, però l’impronta mediterranea resiste. Non si coabita più, ma non per questo i bambini hanno meno relazioni con i parenti, in particolare con i nonni. I quali spesso preferiscono essere autonomi fino a che possono, piuttosto che andare a vivere a casa dei figli. Ed è questo nuovo ruolo degli anziani uno dei fattori della scissione della famiglia, a cui si aggiungono i genitori-soli, nell’80% dei casi madri single. E le coppie che vivono a distanza, i Lat, living apart toghether, un fenomeno assai più diffuso di quanto si pensi». Soli però non è facile. E tantomeno essere un micro-nucleo, con un figlio unico, in un condominio senza cortile, magari in una grande città . Così nel mondo «atomizzato» delle nuove famiglie nascono le reti: solidali, di cohousing,
tra anziani, tra mamme-single, tra padri-soli, tra genitori di bambini della stessa classe. «Voglia di comunità  », l’aveva già  definita Zygmunt Bauman.
Un affratellarsi tra «simili» laddove prima la fratellanza era data dalla nascita, dalla parentela, dall’essere in tanti sotto lo stesso tetto. Nel caldo di agosto Antonia Piscitelli, mamma over 40 di Fabrizio, 7 anni, sorveglia, affannata, 4 bambini che monopolizzano la piscina di un assolato centro sportivo. «Sono quasi sempre le donne a cercare strategie di sopravvivenza », spiega Antonia che dirige uno studio di restauro. «Ho un figlio unico, sono riuscita ad avere soltanto lui, e credo che crescere senza fratelli sia una gran perdita. Vengo da una famiglia numerosa e vedo la differenza. La scuola per Fabrizio, ma anche per noi genitori è stata fondamentale, per la socializzazione, per trovare amici con cui condividere la vita dei figli. Ci spartiamo gli accompagnamenti a scuola, a calcio, a nuoto, facciamo insieme almeno una vacanza all’anno. E i bambini dormono spesso a casa di uno o dell’altro. Non è come avere dei fratelli, ma è molto simile… «. Attenzione alla nostalgia però. Perché seppure rassicurante, la famiglia di ieri, «era in realtà  molto più chiusa all’esterno», dice Tilde Giani Gallino, già  ordinario di Psicologia dello Sviluppo all’università  di Torino. «Non c’è da rimpiangere nulla, ogni forma di famiglia risponde a tempi ed esigenze nuove, e sia i bambini che gli adulti riescono ad adattarsi. Sono più di 20 anni che studiamo i figli unici, sempre con il timore di vederli soffrire di solitudine, e invece loro ci hanno sorpreso, diventando bravissimi nel trovarsi degli amici-fratelli. E poi non dimentichiamo la tecnologia, la rete, il poter essere in contatto sempre… Conosco molte donne, mamme-sole che grazie ad Internet si sono incontrate, e hanno creato legami di amicizia e solidarietà  ». Una comunità  di relazioni dunque, al posto di una comunità  di “di sangue”. Immaginando nuove architetture, nuovi modi di abitare. Antonella Sapio, psichiatra, ha curato il saggio «Famiglie, reti familiari e cohousing» edito da FrancoAngeli. «C’è un gran bisogno di condivisione, tra gli anziani, tra le coppie con i figli piccoli. Ma per non sentirsi isolati oggi lo spazio familiare — dice Antonella Sapio — deve essere condiviso ed esteso. In questo senso il cohousing,
vivere in appartamenti privati ma condividendo luoghi ed esperienze comuni, può essere una risposta. In Italia abbiamo poche e rare esperienze di
cohousing, ce ne sono alcune in Lombardia, altre in Emilia Romagna, ma realizzare questo tipo di strutture abitative è difficilissimo. Anche se in realtà  gli spazi ci sarebbero, penso alla dismissione dei grandi edifici pubblici, alle ex caserme… «Ma forse il cambiamento è avvenuto troppo in fretta. Lasciandoci sorpresi e impreparati a gestire questa “intimità  a distanza”, questo vivere ognuno rigorosamente per sé. Per Carla Facchini, professore ordinario di Sociologia della Famiglia alla Bicocca di Milano, «il costo sociale ed economico di queste scelte sembra oggi molto alto». Il clan infatti, l’abitare insieme mescolando le generazioni, ha sempre significato «avere una pluralità  di affetti e una molteplicità  di aiuti, oggi invece la rete parentale si è così assottigliata che molti bambini non hanno quasi più né zii né cugini». E allora, dice Facchini, «visto che la famiglia estesa è una formula in cui non ci si riconosce più, ma il nucleo troppo chiuso non appare una soluzione felice, dobbiamo pensare a nuove forme di familiarità  alternativa”.


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