Banche centrali in campo pronte le armi di Fed e Bce ma potrebbero non bastare

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NEW YORK â€” E’ la settimana in cui banchieri centrali devono «passare gli esami». Ben Bernanke su questa sponda dell’Atlantico, Mario Draghi sull’altra. I mercati sono appesi alle loro parole e ai loro atti. L’attesa di un’azione parallela tra la Federal Reserve e la Bce è l’unico “anestetico” ad aver placato l’ansia dei mercati. Oggi la Federal Reserve conclude la due giorni del suo Federal Open Market Committee. Domani la Bce riunisce il suo board. Dai due eventi, gli investitori globali si attendono messaggi simili, una terapia unica: la scesa in campo delle due banche centrali più importanti del mondo, per acquistare titoli di Stato.
Le ragioni sono in parte diverse. Qui negli Stati Uniti non c’è una fuga degli investitori dai Treasury Bond, che si collocano benissimo. Tuttavia l’acquisto di quei titoli del Tesoro, oppure di obbligazioni emesse dagli istituti semipubblici di credito fondiario (mutui casa), è uno strumento con cui la Fed può far calare ulteriormente il costo del denaro. La disponibilità  di moneta a buon mercato, come cura contro la stagnazione: l’ultimo dato sul Pil americano è stato di una modestissima crescita (1,5% nel secondo trimestre), che non basta a far scendere la disoccupazione.
In Europa il problema immediato è un altro: si chiama spread. Bisogna ridurre il divario tra i rendimenti dei bond pubblici italiani e spagnoli da una parte, quelli tedeschi e olandesi dall’altra. Uno spread elevato può trascinare verso una crisi di insolvenza il Tesoro di Madrid, già  assediato da banche in crisi e regioni autonome alla bancarotta. Inoltre l’allargamento dello spread (poiché trascina i tassi sui fidi alle imprese) aggrava la perdita di competitività  del Sud rispetto al Nord. In ultima istanza lo spread diventa un indicatore su quanto i mercati e i piccoli risparmiatori scommettano su una dissoluzione dell’euro. Draghi giovedì scorso ha acceso grandi speranze quando ha detto che la Bce farà  tutto il necessario per salvare l’euro. Ammesso che i due banchieri passino il primo
esame oggi e domani, e cioè che i loro annunci non deludano le attese dei mercati, l’esame definitivo sarà  un altro: quanto le azioni di Bernanke e Draghi possono incidere sui problemi reali dell’economia? Sono dubbi che rilancia con forza il Wall Street Journal,
mettendo in prima pagina proprio la questione «se i guardiani dei tassi d’interesse e delle monete in Europa e negli Stati Uniti abbiano la capacità  e gli strumenti per salvare le rispettive economie». Il quotidiano economico americano ricorda che «già  in passato l’attesa di questo tipo di azioni ha spinto i mercati al rialzo, salvo lasciare il posto a nuove depressioni quando ci si è accorti che i problemi economici fondamentali sono al di là  della portata delle banche centrali».
Tra i due banchieri che passano l’esame, Bernanke è in una situazione un po’ migliore. Il sistema bancario Usa, per quanto sia tuttora afflitto da scandali e indagini, si è ricapitalizzato e oggi appare più solido che nel 2008. Il dollaro conserva un privilegio di signoraggio globale, è una moneta che ha dietro di sé il mercato finanziario più liquido del pianeta. Draghi è alle prese con problemi “esistenziali” che il suo collega non ha: la sopravvivenza stessa dell’euro non viene data per scontata.
Inoltre i sistemi bancari europei sono più fragili, meno capitalizzati, e ciascuno si sta “rinazionalizzando” con un pericoloso ripiegamento domestico (in parallelo con le fughe di capitali dall’Europa mediterranea verso il Nord). Ma l’aspetto su cui il
Wall Street Journal attira l’attenzione, è che siamo di fronte al remake di un film già  visto: sia la Fed e la Bce operarono acquisti di bond sui mercati nel 2009 e nel 2010. Gli effetti furono apprezzati dalle banche, ma non risolutivi per l’economia reale. «Le banche centrali sono sole», è la conclusione: perché le austerity dei governi remano nell’opposta direzione.


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