“Aleppo è la nostra Bengasi da qui ricostruiremo la Siria”

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ANTIOCHIA â€” «La Siria può diventare la calamita del terrorismo internazionale, ma noi veglieremo affinché ciò non accada», dice il generale siriano Mustafa al Sheikh, da novembre disertore dell’esercito di Damasco e da allora coordinatore dell’Esercito siriano libero (Esl), le brigate dell’opposizione al regime. Lo incontriamo nella sua tenda al campo profughi di Bohsin, a trenta chilometri da Antiochia e una decina dal confine turco-siriano, che ospita solo alti ufficiali fuggiti negli ultimi mesi. Dice ancora Al Sheikh: «Il presidente Bashar al Assad cadrà  entro settembre perché le sue truppe sono ormai troppo demoralizzate, la maggior parte degli ufficiali sunniti ha defezionato e le sue armi sono troppo vecchie e con poche munizioni».
Generale, la battaglia che si sta svolgendo in queste ore tra le strade di Aleppo è davvero così importante per l’esito del conflitto?
«Sì, perché Aleppo è la capitale economica del Paese e se riuscissimo a conquistarla potremo indebolire il regime fino a farlo cadere. Vorrei paragonarla a Bengasi, che fu la prima città  caduta nelle mani dei rivoluzionari libici e dalla quale partì la conquista del loro Paese. Inoltre, quando avremo Aleppo, potremo facilmente rifornire i nostri combattenti dalla vicina Turchia».
Temete l’uso di armi chimiche da parte del regime contro l’Esercito siriano libero?
«Sì, perché il regime di Assad è capace di tutto. Ha cominciato con gli ammazzamenti e gli stupri nei villaggi, è poi passato all’uso dei carri armati contro i manifestanti e con i bombardamenti aerei sui quartieri caduti nelle mani degli oppositori. Non mi stupirebbe se adesso il presidente siriano decidesse di ricorrere alle armi chimiche».
Che tipo di armi?
«Gas nervino e iprite». Sull’aiuto di quali Paesi potete contare? «Se parliamo di supporto morale, gli Stati Uniti sono al primo posto, poi vengono gli inglesi e i francesi. Se invece ci riferiamo ad aiuti monetari, ebbene solo l’Arabia saudita ci dà  qualcosa».
Con i combattenti stranieri che in queste settimane si uniscono alle vostre brigate non teme infiltrazioni di Al Qaeda?
«Il mio popolo è stato abbandonato dalla comunità  internazionale per più di sedici mesi, mentre cresceva la rabbia contro
Assad e il futuro del Paese si faceva sempre più nero. Oggi la Siria è diventata un terreno fertile per tutti gli estremismi, che possono crescervi come funghi. L’Occidente ha una colpa enorme nell’aver lasciato che le cose marcissero fino a questo punto».
Si aspetta altre diserzioni dall’esercito lealista?
«Sì, se ne verificano quotidianamente. Molti aspettano il momento giusto per farlo, magari un combattimento o un giorno di licenza. C’è infatti un orrendo clima di sospetto che paralizza gli ufficiali e i soldati. Rischiano tutti di finire in galera o di esser fucilati al primo tentativo di fuga».
Lei è ancora in contatto con alcuni generali dell’esercito del regime?
«Certo, perché molti di loro sono amici di lunga data, ed è come se insieme ancora formassimo un solo corpo d’armata. Presto saremo di nuovo uniti, e il nostro compito sarà  di vegliare alla ricostruzione di quel meraviglioso Paese che ha dato al mondo il suo primo alfabeto».
Il giorno che cadrà  Assad non teme il massacro degli alauiti, equivalente a quello perpetrato soprattutto sulla popolazione sunnita dal regime dall’inizio del conflitto?
«Ancora una volta saremo noi militari a evitare che ciò avvenga. Anche perché sappiamo che cosa significa eseguire un ordine, e non riteniamo che tutti gli alauiti siano colpevoli. I soli responsabili della drammatica situazione in cui si trova oggi la Siria e degli orrendi massacri di civili compiuti nell’ultimo anno e mezzo sono Assad e il suo clan».
Dopo la battaglia di Aleppo attaccherete di nuovo Damasco?
«Per fiaccare l’esercito regolare, la nostra strategia è consistita finora nell’attacco e la ritirata. Nella guerriglia. Negli interventi sporadici. Una tattica simile non è però attuabile ad Aleppo. Costerebbe troppo all’economia della città . Ripeto: è la capitale economica del Paese, dove sono anche concentrate le ricchezze industriali. È da lì che ricominceremo a costruire la nuova Siria».


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