Roddy Doyle in viaggio col fantasma

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Ho sempre avuto paura delle storie di fantasmi. Quando ero molto piccolo mia madre organizzava sedute spiritiche e mia nonna girava imperturbabile per casa sostenendo di tanto in tanto di averne incontrato uno. Se poi alla storia di fantasmi ci aggiungete uno dei migliori scrittori irlandesi, l’alone sfolgorante di prestigiose recensioni internazionali sul Guardian, J.K. Rowling che dichiara che l’autore è un genio assoluto e la casa editrice Salani che me la consiglia come assolutamente imperdibile, ecco che, se a me non piace, comincio a essere assalito dal grande dubbio del recensore di libri. Sarò io che non ne ho capito la grandezza oppure c’è davvero qualcosa che non funziona?
L’idea dell’ultima storia di Roddy Doyle, La Gita di Mezzanotte, è spettacolare. Quattro donne devono compiere un viaggio in macchina da un ospedale di Dublino fino a una vecchia fattoria di Wexford. Sono una la figlia dell’altra. Mary è una bambina decisa, che insegue il sogno di diventare una chef di fama mondiale; Scarlett è sua madre, una donna dinamica, sbrigativa, che sa come arginare l’esuberanza della figlia; Emer è la nonna morente, sul letto d’ospedale, che si ripete “sono viva” ogni volta che riesce ancora ad aprire gli occhi. E Tansey è sua mamma. È una bisnonna che ha l’aspetto di una giovane donna del secolo scorso. Ed è, naturalmente, un fantasma: è morta quando Emer aveva solo tre anni, di influenza, dopo aver dato da mangiare ai levrieri (che Emer odia, perché pensa che, sotto sotto, sia stata colpa dei cani, se la mamma è morta). Tansey non se ne è andata: ha scelto di soffermarsi nel nostro mondo. E di rimanere ad aiutare la figlia, soprattutto ora che è vicina al trapasso. È un fantasma atipico, spigliato, che ama parlare con i bambini e guardare una tazza di tè dato che non ne sente più il profumo, e che convince le altre a intraprendere un ultimo viaggio verso la fattoria dove è iniziata tutta la loro vicenda famigliare.
Il viaggio, però, date le premesse, scorre via troppo lieve. Ci si collocano male i levrieri, che per gli antichi erano animali “psicopompi”, ovvero accompagnatori delle anime nel loro passaggio tra i vivi e i morti, e, soprattutto, la leggerezza dei dialoghi fa sfumare la magia di una bambina che ha l’occasione di parlare con una bis-nonna più giovane della nonna.
È proprio l’aspetto fantastico quello in cui Doyle fallisce il suo tentativo di entrare in sintonia  con il mondo dell’invisibile. Il brillantissimo autore di Paddy Clarke, Ah Ah Ah! tentenna tra i registri, scegliendo poi quello più difficile: il sarcasmo. Nelle grandi storie per ragazzi, invece, quelle che tutti amano leggere perché richiamano i bambini interiori di ogni età , la magia è vera. È un dato di fatto inspiegabile, del quale il lettore non si preoccupa, pronto a lasciarsi trasportare dalla maestria dell’autore. Se al fantasma di Tansey viene messa la cintura di sicurezza non appena si mette in viaggio, i dettagli della modernità  soffocano la grandezza del mondo magico. E lo rendono distante, come se l’autore stesso non ci credesse fino in fondo. Doyle è sì spassoso, ma usa troppi dialoghi per rimarcare quanto il viaggio sia meraviglioso, scatenando il cosiddetto “effetto Lovecraft”: quando servono troppe parole per descrivere quanto sia spaventoso un mostro, allora significa che non lo è. Tansey non è “vera” come i fantasmi di Shirley Jackson (L’incubo di Hill House,
Adelphi) o come quelli di Charles Dickens, che tra l’altro hanno da poco festeggiato i loro 150 anni. È simpatica, brillante, pure moderna, ma a volte svicola, non racconta quanto dovrebbe. Parla molto, questo sì, anche perché Doyle è giustamente famoso per i suoi dialoghi a botta risposta con diversi livelli di lettura, ma allora, forse, occorreva lavorare meglio nella loro traduzione. Quando bis-nonna e nonna si incontrano per la prima volta, ad esempio, non si dovrebbero semplicemente dire: Emer? Eh? Tu sei Emer? Sì, lo so. Perché la battuta finale (I know) dovrebbe essere piuttosto un: E chi vuoi che sia? L’umorismo delle quattro donne sorregge tutto il libro, ma a volte è speso male, perché viene utilizzato come facile scorciatoia per non affrontare temi più interessanti e profondi. Fa galleggiare la matassa degli affetti anziché dipanarla. Eppure, le quattro donne sono personaggi potenti: ci fanno intuire che sono loro le custodi dei valori della famiglia (gli uomini sono praticamente assenti), e che conoscono gli ingredienti della formula magica dell’amore che supera ogni barriera. Ma, così mediate, non riescono, a farsi capire del tutto dai lettori.
Quando mia mamma e mia nonna mi raccontavano dei fantasmi di casa lo facevano senza alcuna ironia, senza paura, con un grande affetto. Senza altre spiegazioni, mi comunicavano l’assoluta certezza che anche i fantasmi avessero le loro regole. Tansey, invece, quando attraversa la porta di una gelateria con alcune monete, esce poi dal camino della stessa gelateria reggendo i coni gelati, perché quelli, dice, dalla porta non ci passavano. Come se a volte, quando si è bravi, bastassero due soldi per attraversare tutte le porte.


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