CON GADDA IN TRATTORIA

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In edizione definitiva («Biblioteca Adelphi») riappaiono alcuni capolavori di Carlo Emilio Gadda: Accoppiamenti giudiziosi e L’Adalgisa.
Tutt’altro che tascabili disinvolti. Anzi, con apparati accuratissimi: oltre cento pagine cadauno. Ma quanti flashback richiamano.
Nei lontani anni Cinquanta, la “scoperta” di Gadda avvenne su I Sogni e la Folgore, un grosso volume Einaudi che includeva
La Madonna dei Filosofi, Il Castello di Udine, L’Adalgisa.
In prestito dalla Biblioteca Municipale di Voghera. Ma intanto, si erano acquistate (e sono ancora qui) le Novelle dal Ducato in Fiamme
nella meravigliosa serie gialla della «Letteratura contemporanea» di Vallecchi. Coi proventi della stampa dei biglietti ferroviari, si diceva. E ci si poteva gloriare perché nella rivista bolognese «Officina» accanto al suo Libro delle furie apparivano i miei primi versi a cura di Pasolini.
L’Adalgisa poi si ritrovò anche sul «Tesoretto 1941» mondadoriano. Ma in modernariato.
Non appena a Roma, cominciai a ricercarlo. E mi pareva lieto, anche se limitava le uscite. Ma allora, pienamente: anche perché era contento del servizio alla «Carbonara», ove gli piaceva trattenersi fino a metà  pomeriggio, sorseggiando il buon Chianti leggero di amici detti confidenzialmente «Seduceski ». E non tenuto in piedi «come uno stecco» giacché «celibatario », in una trattoria precedente. Così non si badava tanto al laboratorio e all’attrezzeria o al trovarobato, «e che uno qui, e
là », quando si stava a chiacchierare ssieme. Ed effettivamente, molte sue battute equivalevano alle note nei «Disegni milanesi». Ma si sarebbe adontato, vedendoci fare gli scribi.
Ebbe qualche “mot” in casa d’amici, in via Angelo Brunetti. Chi era? Forse un clavicembalista del Settecento, propose taluno. Ma Gadda, tranchant: «Era il popolare Ciceruacchio!». E poi, fra ritrosie reciproche con Luchino Visconti, ricordando di essersi conosciuti a Milano, «da Gorgerino», subito si domandò se era il soprannome di un sarto alla moda. Ma si venne fulminati, insieme: «Era il redattore-capo della pagina letteraria sull’“Ambrosiano”!». Altri imbarazzi all’anteprima della Bella di Lodi.
Alla fine, Gadda si accorse di sedere accanto a Cesare Castelbarco Albani, che per un suo gusto aveva interpretato il nonno della bella Sandrelli. Gadda, deferente: «Principe…». E il principe: «Qui non importa». Naturalmente, e appare oggi anche più chiaro, Gadda non poteva tollerare che ci si definisse suoi «nipotini», artificiali e abusivi, per il fatto di seguire un dialetto locale sulla pagina, e non invece “operare” su ogni singolo vocabolo – letterario, parlato, arcaico, attuale, dialettale, tecnico… – all’interno di ogni elaboratissima frase. Così, niente «Sei tu un culo, Ciulanda porca!», o plurilinguismi tipo «Hanno tuato anca lui» (il Franzese, nell’Ambleto) di Testori. Né il Pasolini del Ciriola e delle piotte, dei «so’ c… mia! o «so’ c… pe’ quelli c’hanno beccato, li mortacci loro!» accanto a «l’os-
same sgretolato di soddisfazione sotto la cotica»…
Né certamente un «c’hanno». Macché inanellare o incastonare o scandire, punte dell’iceberg, occhi del tifone, mozzafiato da capogiro. O gerghi a confronto, fra «Apai: P.A.I. Polizia Africa Italiana » in Ragazzi di vita e «Abaa. L’abaa Parin» nel vecchio Dizionario Milanese- Italiano di Cletto Arrighi. Dove – benché Manuale Hoepli 1896 – invano si ricercavano termini dialettali come plandrà³n, luità³n, simpià³n, scursà³n, rà¼snà³n, garà¼vlà³n, pataflà³n… Tutte vecchie parole che Gadda non risentiva più da quando stava a Roma. Come baloss, balabiott… Gadda era contento di sapere che una tremendina del Verzee, nelle riviste dei Legnanesi, cantava «son la balossa del piacer». E apprezzava che fra tanti cugini Gatti e Cavalli ci fosse una benefattrice ottocentesca con Gatti Cavalli Fiori sulla tomba. «Fiori e cuori e picche, oziose bocche!» canticchiava soddisfatto. Come nelle vecchie case dove c’era «l’Isola di Giava »: un “fumoir” dove si riunivano i signori – senza le signore per dirsi le “giavanade” dopo cena.
Forse soprattutto per motivazioni linguistiche si finiva per uscir volentieri in trattoria, giacché nessuno dei suoi seguaci a Roma aveva un analogo passato lombardo campestre dove si erano imparati vocaboli ormai in disuso; e i loro adattamenti borghesi moderni usati come fra virgolette per dar sapore al linguaggio: «spatuscento, sberluscento, purscelento»… Storielle sul medesimo ceto “titolato” nell’Adalgisa: un conte accompagnato dagli amici che tentano di consolarlo, dopo le esequie dell’amata consorte in San Babila. E lui: «E inscì, fra una robba e l’altra, emm fatt l’ura del risott». Ancora, mentre sta vestendosi per un pranzo, un cameriere: «Una brà¼tta nutissia». «Te mel dirett dumann». «Ma l’è propi brà¼tta, l’è mort el so fradell ». «Te l’avevi ben ditt, de dimmell dumann». Una gentildonna molto fascista, per consolare la servitù atterrita, in cantina, mentre gli alleati bombardano Milano: «Tranquilli, à  la fin ghe darann la Corsica». E se si facevano osservazioni perché una contessa diceva «il Negrus», lei si stupiva. «L’è bianco, el Neuno
gus, adess?». E ridacchiando se il Gran Senusso parlava dei suoi figli: «Ma l’è minga el Grande Eunuco?».
A un livello più rionale. In banca, una cerca di passare avanti. «Mi sun la sciura del cervellée ». E il cassiere: «Née, sciura, che la fassa la distinta, cume fann tà¼cc». E lei, con una vocina tutta aggraziata: «Sono la signora del cervellaio, signor cassiere, può gentilmente porgermi il modulo?». Un farmacista sempre assatanato lascia un sostituto notturno, un sabato. E poi: «E ben, cume l’è andaa?». «L’è vegnà¼da chi una bionda, cun la pelissa, e “dottore dottore, sono tutta un fuoco, mi dia qualcosa per calmarmi”. E sutt la pelissa, l’era tutta biotta». «E tì, e tì, cussa t’è fatt?». «G’ho daa un calmant ».
Lì per lì, fra i semititolati dell’Adalgisa e gli Accoppiamenti giudiziosi e le «Sediziose voci» della Normacon tutt’altra Adalgisa, ci fu parecchio da discorrere. Anche sui «cannoni grandinifughi »: c’erano ancora da noi, nelle soffitte, certe mappe topografiche delle «batterie di tromboni rivolti al cielo sui poggi in campagna». Ma «piscinina» in quanto primo mestiere dell’Adalgisa, non resta datato a «Milano 1870-1920» come afferma il Gadda. Almeno degli anni Trenta è la canzone «Oh, bella piscinina – che passi ogni mattina – passeggiando lieta fra la gente – canticchiando sempre allegramente…». E forse risale a prima dei flà¢neurs e dei
passages di Walter Benjamin, la canzone «Camminando per Milano passeggiando piano piano quante cose puoi vedere, quante cose puoi saper. – Tanta gente per la via, – tanta gente in Galleria…». Anzi, a proposito del Politecnico (allora «Nuovo. A Lambrate»), Saul Steinberg, che vi fu studente prima di migrare a New York, mi chiedeva sempre nuovi inediti di Gadda, purché in milanese, che era per lui «la lingua dell’amore», con le “piscinine” del Quartiere Brera che parlavano solo in dialetto.
Questa grandiosa edizione adelphiana dell’Adalgisa (a cura di P. Italia, G. Pinotti, C. Vela), fra gli apparati ricchissimi, ostenta un «Brusuglio» d’autore. «10 chilometri circa a settentrione della metropoli. A Brusuglio, una villa già  appartenuta ad A. Manzoni: vi fu composto di getto il Cinque Maggio, con la diletta Enrichetta al pianoforte». Ivi gli attuali proprietari, Alberto e Barbara Berlingieri, che l’hanno restaurata nel pristino splendore, sostengono che il Manzoni, fuori stagione, andava e tornava da Milano a piedi in giornata. Ma soprattutto, Gadda aveva una straordinaria conoscenza diretta degli artisti minori nei musei italiani più remoti in provincia. Come avrà  fatto, senza macchina, ai tempi delle Giubbe Rosse?
«Ha strillato molto, la Elsina, anche ieri sera?», si informava puntualmente la mattina dopo, quando si “decommandava” alle solite cene all’aperto, con i Guttuso, i Piovene, Moravia, e talvolta Bassani o Garboli. Sapeva bene che lei sarebbe arrivata agitando «Paese Sera» e strillando che bisognava far subito qualche cosa contro la bomba atomica o in favore dei gatti. E verso le dieci e mezza, a Pasolini già  inquieto, «vai, vai, perché sennò non ti aspettano». E nessuno badava a quei ragazzini certamente minorenni, o ai fratelli maggiori che evidentemente incassavano un compenso.
In un illustre salotto milanese a Roma, fra i Guardi e i Canaletto e i Tiepolo, splendeva allora una «Veduta della Gazzada», di Bernardo Bellotto, celebre perché visuale en pendant opposta alla copertina della Cognizione del dolore.
Ora si trova a Capodimonte, «non perché io sono caprese – diceva la signora – ma perché a Napoli non c’è neanche un bel Bellotto vero, mentre a Milano ce ne sono tanti, e del resto lasciamo al Poldi-Pezzoli la collezione dei fondi-oro».
Ecco le storie che amava l’Ingegnere: come la vicenda dei Canaletto molto insoliti in un altro salotto romano, «ma piemontesi e milanesi, perché furono acquistati dal Conte di Cavour, passando poi agli Alfieri di Sostegno e quindi ai Visconti-Venosta». Anche qui, i fondi-oro al Poldi-Pezzoli. In una sala speciale, con la targhetta della donazione.
Credo che si sarebbe animato anche davanti al Caravaggio restaurato di Messina, a Palazzo Braschi. Mi pare di risentirlo, sbalordito davanti al gran numero degli allestitori e dei ringraziati. Si tratta di una «Resurrezione di Lazzaro». Ma la luce dei riflettori rende abbagliante lo spazio buio sopra la scena. E solo a casa, riguardando le riproduzioni, si può vedere che due incomprensibili tratti chiari verticali a sinistra non sono zanne ma appartengono all’orecchio di una faccia non visibile. Ecco gli argomenti di cui l’Ingegnere amava discorrere.


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