La partita si gioca ad Aleppo
È ad Aleppo che si sta sviluppando la fase più acuta della guerra civile che negli ultimi dieci giorni – con l’assalto (respinto dai governativi) di 5mila ribelli a Damasco – ha subito una drammatica escalation, segnata dall’attentato di una settimana fa che ha ucciso alcuni dei più stretti collaboratori del presidente Bashar Assad. Il nord è l’obiettivo immediato dei ribelli armati che intendono strapparlo al controllo del governo e proclamarlo subito «territorio liberato». Uno sviluppo che segnerebbe una sconfitta forse irreparabile per il presidente siriano. Per questo la battaglia di Aleppo potrebbe rivelarsi persino più cruenta di quella di Damasco. L’esercito ha spostato verso questa bellissima città , patrimonio dell’umanità , migliaia di uomini e decine di mezzi corazzati per respingere l’assalto dell’Esercito libero siriano (Els), la milizia dell’opposizione.
Nei combattimenti ad Aleppo i governativi possono contare anche sull’appoggio degli elicotteri ma i ribelli ora hanno armi per contrastare la maggiore potenza di fuoco delle forze armate regolari: razzi anticarro, lanciagranate, migliatrici pesanti, bombe. E sono sempre più motivati, grazie anche allo stipendio mensile che ricevono dagli sceicchi del Golfo, decisi a far cadere il nemico Assad. L’Els ha conquistato Arar, cittadina non lontana dalla frontiera con la Turchia, mentre l’esercito ha ripreso il controllo di Tel, a ridosso di Damasco. Secondo dati non ufficiali dal 15 luglio sono morti almeno 1.261 siriani, tra i quali anche civili, mentre Amnesty International torna a denunciare le esecuzioni sommarie compiute da regime e ribelli. Proseguono anche le defezioni. Le ultime due riguardano gli ambasciatori negli Emirati e a Cipro che sono passati all’opposizione. Il fenomeno è in crescita ma riguarda in quasi tutti i casi siriani sunniti, a conferma delle caratteristiche sempre più settarie del conflitto. Per questo non sono pochi coloro che vedono una Siria frantumata con la caduta di Assad.
Il presidente siriano è ancora in sella ma deve affidarsi sempre di più ai reparti dell’esercito composti in prevalenza da membri della sua setta, quella alawita e sull’appoggio silenzioso della maggioranza dei cristiani. Sa che con l’afflusso continuo di armi destinate ai ribelli, per le forze armate regolari sarà sempre più difficile tenere il controllo delle aree del paese a maggioranza sunnita. È plausibile che, di fronte all’emergere di una entità sunnita più o meno omogenea sotto il controllo dell’Els, Assad sia costretto a trasformare l’ovest del paese, la zona di Latakiya, a maggioranza alawita, in una enclave ben difesa e con l’accesso al mare. Una soluzione resa concreta dal timore che gli alawiti hanno di vendette sunnite in caso di caduta del regime. Per loro sarebbe preferibile la resistenza ad oltranza in un piccolo territorio a una vita sotto il tallone sunnita. Il sostegno degli alawiti è un patrimonio di eccezionale importanza sul quale Assad potrà contare in ogni circostanza. Ha perciò ragione Robert Fisk quando scrive, come ha fatto nei giorni scorsi, che solo la perdita dell’appoggio alawita, alquanto improbabile, può segnare la sconfitta senza appello di Assad.
Questo però è solo un pezzo del puzzle della Siria frantumata che rischia di venire alla luce tra qualche mese. Non è solo una teoria la possibilità che le regioni kurde siriane si rendano autonome sul modello del Kurdistan iracheno separato da Baghdad, voluto dagli Usa dopo il primo attacco al regime di Saddam Hussein nel 1991. Ma kurdi sono anche quelli che combattono la Turchia e non è un mistero che Bashar Assad stia dando spazio ed appoggi al Pkk per ricambiare la «cortesia» ricevuta dal premier turco Erdogan, il più rapido ad abbandonarlo e a dare aiuto e accoglienza ai ribelli armati e al Consiglio nazionale siriano (opposizione). Il Pkk potrebbe usare il territorio di una Siria spaccata in più parti per tenere sotto pressione Ankara che, a sua volta, finirebbe per creare una zona cuscinetto in terra siriana come ha fatto negli anni passati al confine con l’Iraq. E il Golan occupato da Israele? C’è chi lo vede trasformato in un contenitore per siriani in fuga dai futuri padroni di Damasco. Israele, in ogni caso, non lo ha ridato al regime baathista e non lo darà a nuove autorità siriane, ammesso che queste ultime intendono chiederne la restituzione.
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