Nei dettagli vive il tempo rimosso

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Alan Pauls è un artista della minuzia, capace di partire da dettagli all’apparenza (parola importantissima) insignificanti per costruire significato, per riflettere sul suo mondo, le sue ossessioni, il suo passato. O meglio quello di tutto un contesto, un paese, forse un continente. Capace di fare di quelle minuzie politica. Senza scoprire le carte, senza tesi. Ma con una caparbietà  ben più ficcante della militanza. Fa quello che tutti gli scrittori dovrebbero fare: suggerire, stimolare, spiazzare. Capire (e far capire). Cerca, e spesso trova, una sintesi di cruciale e piacevole con una prosa controllata e divagante, ironica ma pesata in ogni parola. 
Dopo Il passato, che uscì per Feltrinelli qualche anno fa, si sono dipanati i primi due capitoli della trilogia delle «storie»: Storia del pianto (per Fazi) e il recente Storia dei capelli (per la giovane creatura di minimum fax, Sur). E un terzo «movimento» ha ancora da venire. Abbiamo incontrato Pauls in un tardo e caldo pomeriggio romano, tra le incongruenze architettoniche dell’Isola Tiberina. È un uomo dall’aria saggia, che parla uno spagnolo nitido, lento, circolare. Gira attorno alle cose come le parole girano attorno ai suoi chiodi, pacatamente, implacabilmente. Ne è nata una lunga chiacchierata su storia, politica, verità  e letteratura.
Il passato, Storia del pianto, Storia dei capelli. Nei titoli dei suoi tre libri per ora pubblicati in italiano compaiono due parole chiave: «passato» e «storia». Senza contare che Storia del pianto ha come sottotitolo, nell’edizione in spagnolo, «un testimonio». Vede la letteratura come un modo di testimoniare uno dei passati possibili?
No, non credo che la letteratura sia una vera e propria testimonianza, ma mi interessa molto la testimonianza e la sua relazione con la storia. Non cerco il passato come se fosse una verità  originaria da recuperare in qualche modo, non credo sia così. Mi interessa molto di più il modo in cui noi elaboriamo il passato, come lo ricordiamo, lo deformiamo, lo inventiamo, alla fine. In tutti i miei libri ho una relazione stretta con la storia, ma non come se la storia fosse un luogo di verità . Anzi, la storia è il luogo dove la verità  si falsifica, si modella, si distorce. Ed è questo che mi interessa.
In Storia dei capelli sono protagonisti gli anni ’70, un periodo su cui è ritornato più volte nei suoi libri. Ci può spiegare qual è il motivo di questa scelta? 
In realtà  mi sono calato negli anni ’70 in questi tre libri, nelle tre Storie, ma soltanto in questi. Terminata la Storia del denaro (ultimo volume della trilogia, ancora inedito, ndr) hanno smesso di interessarmi, credo di aver chiuso con loro. È molto probabile però che loro non abbiano ancora chiuso con noi. Credo, ed è il motivo che li rende in qualche modo unici, che siano stati l’ultima epoca di passione, l’ultimo momento in cui la politica fu intesa come passione, in Argentina almeno. E mi interessano perché, anche se non sembra, si estendono fino ai giorni nostri. In Argentina molti degli uomini in posizioni di potere sono ex militanti degli anni ’70. Nel presente politico, c’è oggi il ritorno di una certa retorica, di certi gesti che ricordano da vicino l’identità  e anche l’antropologia di quel periodo. Il mio focus è capire come il passato si evolve, in questo caso come gli anni ’70, subdolamente, si sono evoluti. Perché a pelle, è chiaro, nessun’epoca sembra più cristallizzata o inamovibile di quella. Un’epoca definitivamente perduta. Ma c’è oggi una volontà  politica precisa di far tornare nel presente gli anni ’70. Una operazione ambigua che mi interessa molto, come fonte letteraria.
Lei parte dai dettagli per descrivere lo scenario, come se tutto prendesse vita da un particolare. C’è un progetto dietro alla scelta di questi tre elementi, lacrime, capelli, denaro?
C’è un elemento di capriccio nella mia scelta: non sono queste le porte da cui normalmente la letteratura entra per affrontare un tema, un contesto, un paesaggio. Ma c’è anche una ratio, un progetto nell’aver scelto questi elementi e non altri: le lacrime, i capelli, il denaro, sono allo stesso tempo intimi e politici, una sorta di snodo tra privato e pubblico, personale e storico. Inoltre hanno in comune una proprietà  importante: sono cose che si perdono. Le lacrime si versano, si perdono. I capelli si perdono, in certi casi drammaticamente. I soldi, quant’altri mai, si perdono. Se dovessi definire i romanzi della trilogia direi che sono libri sulla perdita, su quanto c’è di irreversibile nella perdita.
Il protagonista di Storia del pianto è un «orecchio assoluto», ovvero ha la capacità  di spingere gli altri, gli adulti, i cosiddetti «razionali» ad aprirsi in modo contagioso e anche spudorato. È un collettore, anche doloroso, di ascolto. È forse questa una delle cose che mancano in un contesto in cui tutti vogliono sovraesporsi?
Penso di sì. Credo che saper ascoltare sia un grande talento, quasi un’arte, direi, che solamente alcuni psicanalisti sanno davvero mettere in atto. Nel caso di Storia del pianto, credo che l’ascolto abbia anche alcune caratteristiche di patologia. Il protagonista del romanzo, Ellero, soffre nell’ascoltare. Ascolta talmente tanto da rimanerne sconvolto. Soffre di questa sua capacità  di indurre gli adulti a «confessarsi», di farsi dire cose che loro non direbbero a nessun altro. Queste «confessioni» producono in lui un effetto tossico, come se lo avvelenassero, come se gli adulti lo «fecondassero», diciamo così, con le loro esperienze più recondite. Nell’ascoltare c’è dunque qualcosa della condizione della vittima. Ellero ascolta, ascolta, ascolta, ascolta fino a trasformarsi in una sorta di capro espiatorio.
I capelli invece sembrano stimolare, oltre che ironiche e divertenti questioni estetiche, soprattutto riflessioni sull’identità …
Sì, nel romanzo i capelli sono costitutivi di una immagine, disegnano un’identità . C’è l’idea che i capelli costituiscano una specie di «teatro politico», un feticcio culturale. Decio, il protagonista di Storia dei capelli, tenta di convertirsi in ciò che non è, in un rivoluzionario, acconciandosi alla maniera «rivoluzionaria». È un desiderio impossibile che, in lui, si tramuta in ossessione. I capelli diventano ossessione nel momento in cui il personaggio non resiste più nei suoi panni e tenta disperatamente di spostare la sua identità , di fare la sua «rivoluzione».
Leggendo i suoi testi si ha la sensazione che la «frivolezza» riesca a veicolare una densità  di riflessione, e di sensazione, più forte rispetto alla teoria, o all’attacco frontale, soprattutto in un mondo in cui la soglia di tolleranza a qualsiasi tipo di stimolo si alza in modo esponenziale e nevrotico…
Sì, mi interessa questo tipo di rapporto tra letteratura e politica, non mi interessa la letteratura «impegnata» in senso tradizionale, la letteratura che tratta la politica come un «tema». Preferisco quando la finzione si accosta al «politico» da scorci stranianti, obliqui, mai diretti. Il gioco sta nell’andare a scoprire fino a che punto la storia o la politica impregna i dettagli più minimi, anche infimi, insignificanti. Cerco di incontrare la politica dove apparentemente non c’è, o non dovrebbe esserci. Nel superficiale, nell’effimero. Come se la storia fosse fatta di mine interrate in un campo, piccole bombe di tempo pronte a scoppiare appena le si calpesta. Che si possono trovare ovunque, nei capelli, nella moda, in qualsiasi cosa.
È celebre il suo rapporto epistolare con Roberto Bolaà±o. Quanto ha inciso secondo lei la sua opera letteraria sull’ultima parte del XX secolo e oltre?
Bolaà±o è riuscito a dire qualcosa di assolutamente notevole nell’orizzonte letterario, qualcosa che ha chiuso in maniera difinitiva il progetto del grande romanzo latinoamericano (con i Detective selvaggi, che scrisse quando si diceva che nessuno avrebbe più potuto scrivere un libro del genere). Ha chiuso, letteralmente, il secolo. Poi ne ha aperto un altro, con qualcosa di completamente inaspettato, insperato, come 2666. Lo stesso scrittore dunque chiude una grande tradizione e ne apre un’altra che possiamo per ora solo intuire. La apre con un romanzo assurdo, stravagante come 2666. Questo da un lato. Dall’altro credo che Bolaà±o abbia saputo combinare due filoni che fino a quel momento erano stati incompatibili: un certo vitalismo letterario, come quello dei beatnik, nel solco di una tradizione romantica, avventurosa, spontanea, «selvaggia»; e un modo di pensare la letteratura piuttosto intellettuale, erudito, «borgesiano». Banalizzando, potremmo dire che Bolaà±o ha fuso in sé la letteratura di Kerouac e Borges, due opposti sistemi letterari, due archivi culturali che fino ad allora non avevano avuto punti di contatto. C’è un terzo punto molto importante: Roberto Bolaà±o è riuscito a «estetizzare» la lotta politica della sinistra in America Latina negli anni ’70. È riuscito a convertire un immaginario triste, sanguinolento, sconsolato in una nuova estetica romantica. I personaggi di Bolaà±o non sono mai guerriglieri giustiziati o militanti torturati, son sempre poeti. Come se la figura del militante, dell’utopista politico, venisse sincretizzata con quella del poeta, in qualche modo risuscitandola e sollevandola dall’oblio. Bolaà±o stesso fu poeta per molti anni. Non un buon poeta. Se ne rese conto e si dedicò alla narrativa convertendo però i suoi personaggi in poeti. Migrò dalla poesia in versi al mito della vita del poeta. La sua poesia, quando «passa» dentro la prosa, folgora. 
Rivolgendomi sempre al Pauls critico, vorrei chiederle un consiglio. Da qualche tempo è esploso qui da noi, sia pure con un certo ritardo rispetto ad altri paesi, un piccolo boom della letteratura ispanoamericana. L’impressione però è a volte quella di un calderone – che vengano cioè proposti nello stesso modo autori di paesi diversi e lontani, classici e nuove voci. Secondo lei quali sono i tre libri fondamentali degli ultimi dieci anni in Argentina?
È una domanda alla quale è difficile rispondere. In primo luogo suggerirei forse il libro di uno scrittore argentino che non credo sia tradotto in italiano, Sergio Chejfec, Baroni: un viaje. È il racconto di una visita a uno scultore venezuelano, un libro straordinario. Come secondo titolo, vorrei citare un romanzo di Luis Chitarroni intitolato El Carapalida, è un libro ambientato in una scuola primaria negli anni ’70, densissimo. Ma vorrei dire almeno un titolo che sia stato tradotto nella vostra lingua… e dunque cito I fantasmi di Cesar Aira, anche se è di qualche anno più vecchio. Aira probabilmente è lo scrittore che ha influito di più sui cambiamenti della letteratura argentina degli ultimi vent’anni. Questi tre titoli possono essere un buon inizio per costruire uno scenario.
Di solito a uno scrittore si chiede cosa legge o perché scrive. Domande cui dovrebbero rispondere i libri stessi. Le domando invece cosa cerca nella lettura.
Cerco nella lettura le stesse cose che cerco in ogni altra esperienza artistica, ovvero non sapere da che parte son girato. Cerco di stupirmi, di sconcertarmi. Cerco straniamento, spostamento dell’orizzonte. In questo senso la grande emozione di leggere o di stare davanti a un quadro è la stessa. Mi interessa provare sensazioni di «scomodità », di incompiutezza, dislocazione, perturbamento.


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