I silenzi della Chiesa all’indomani della guerra

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I secolari rapporti tra ebraismo e cattolicesimo sono sempre stati filtrati in Europa dalla presenza di quel magistero unificato che è esercitato dalla Chiesa di Roma. Di fatto, più che scambi tra due confessioni religiose, avendo a che fare con soggetti di natura diversa, sarebbe meglio impostare la questione a partire dalle relazioni tra un’istituzione collettiva e quelle organizzazioni sociali, assai più segmentate, che portano il nome di comunità  ebraiche (o «università  israelitiche», in ebraico «Kehillot»). Già  da questa strutturale asimmetria tra soggetti, che si articola nel corso di due millenni, si coglie la specificità  dei legami conflittuali che arrivano, per più aspetti, fino ai giorni nostri. La ricaduta sul senso comune degli insegnamenti della Chiesa nei paesi a maggioranza cattolica era (e rimane) infatti un tornante ineludibile nella definizione dello statuto civile degli ebrei, riconosciuti perlopiù in quanto parte di un gruppo culturalmente e socialmente autonomo rispetto alla maggioranza della popolazione. Dall’illumismo e dall’età  rivoluzionaria in poi l’influenza ecclesiale è andata ridimensionandosi, parallelamente all’affermarsi dei diritti civili legati alla concezione prima liberale e poi sociale degli Stati nazionali. Rimane purtuttavia irrisolto il nodo complesso della rilevanza culturale che il cattolicesimo istituzionale ha esercitato, anche in tempi relativamente recenti, in Italia come nel Continente, nell’elaborare la specificità  dell’identità  ebraica, intesa come alterità  assoluta, concorrenziale, irriducibile ai paradigmi dell’egemonia cristiana. 
Molti sono stati gli studi e le riflessioni che, stimolati anche dagli effetti prodotti nel lungo periodo dal Concilio Vaticano II e dalla dichiarazione «Nostra aetate», hanno cercato di mettere a fuoco i passaggi fondamentali delle non facili relazioni. Tra tutti basti citare i lavori di Giovanni Miccoli. Una giovane studiosa, Elena Mazzini, ha pubblicato di recente per Viella un buon testo dedicato all’Antisemitismo cattolico dopo la Shoah. Tradizioni e culture nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1974) (pp. 200, euro 25), concentrando la sua riflessione su un periodo fino ad oggi trascurato, quello successivo al 1945 e che termina con i primi anni Settanta. Il volume raccoglie lo spoglio svolto su una pluralità  di fonti, quasi tutte interne al cattolicesimo italiano. L’obiettivo era quello di verificare la persistenza dell’antisemitismo cattolico dopo la fine della guerra e di individuare le sue forme e i suoi contenuti, nelle perduranze come nei mutamenti. Il lavoro di Mazzini si è quindi concentrato sui linguaggi e sulle formule culturali che hanno accompagnato la riflessione cattolica, soprattutto di matrice istituzionale, verso gli ebrei. Ne è derivata una ricognizione sui paradigmi e gli stilemi comunicativi di parti significative della Chiesa postbellica che è anche una riflessione su come l’istituzione ecclesiale abbia cercato di rielaborare i disastri del conflitto medesimo, a partire dalla Shoah, mentre andava confrontandosi con l’ineluttabilità  dei processi di modernizzazione delle società  di massa. 
Il quadro delle reticenze e delle elusività  è ampio, segnalando sia il perdurare, almeno in certi aspetti, di alcuni cliché radicati, sia il persistere della teologia antigiudaica che è la matrice di fondo della dottrina cattolica tradizionalista. Afferma l’autrice: «Ci troviamo di fronte a una ristrutturazione discorsiva piuttosto che a una revisione di sistema». Cambia la retorica, non l’approccio diffidente. Un significativo registro di queste tendenze è fornito da «Civiltà  cattolica», l’autorevole periodico gesuita dal cui spoglio Mazzini intesse diverse riflessioni. Ma più che il mero riprodursi di un pregiudizio attivo quello che si registra a cavallo tra la seconda metà  degli anni Quaranta e la conclusione del periodo conciliare è una atteggiamento di rimozione nei confronti degli ebrei, a partire dalle tragedie da essi vissute. Non c’è infatti nessuna forma di rielaborazione del recente passato, riaffermandosi semmai l’elusività  (la «metodica del silenzio»), espressione sia di una perdurante ambiguità  di fondo che di incertezze crescenti. 
L’impatto dell’esperienza conciliare sarà  quindi complesso e a tratti contradditorio, segnalato più da piccoli scarti, nell’insufficiente tentativo di superare l’«immagine addomesticata dell’altro», che non dall’assunzione di una diversa visione dell’ebraismo nel suo insieme. È in questo interstizio che si inserisce quel fenomeno di permanenza nel mutamento che accompagna l’antiebraismo cristiano in quanto narrazione plastica, capace di adattarsi alle diverse contingenze storiche, laddove questo tipo di approccio intransigente e sostanzialmente reazionario si rivela funzionale a quelle esigenze di coesione interna e a un più generale discorso identitario dove il «di fuori» dal perimetro della dottrina viene ancora vissuto come una minaccia incombente.


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