Battaglia a Damasco città fantasma
Una città fantasma, percorsa soltanto da uomini armati, avvolta in un silenzio irreale, incrinato dall’eco delle esplosioni e delle raffiche di mitra. È questa la fotografia di Damasco come risulta dai racconti dei suoi abitanti, la stragrande maggioranza dei quali, dopo l’attentato che mercoledì ha decapitato il vertice politico-militare del regime, ha deciso di tapparsi in casa, o di allontanarsi dai quartieri dove continua a infuriare la battaglia tra l’esercito regolare e i ribelli. I combattimenti sono ripresi anche al confine con la Turchia, dove gli insorti hanno preso il controllo del valico di Bab el Hawa e della città di Jarablus. Il vessillo della rivolta è stato issato altresì sul terminal di Bukamal, alla frontiera con l’Iraq.
In questa guerra non sembra esserci spazio per una tregua. Se gli insorti continuano il loro attacco per “liberare la capitale”, i seguaci di Assad, nonostante il colpo subito, non sembrano disposti ad arrendersi. Né la comunità internazionale è in grado di interrompere il ciclo della violenza. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu che avrebbe dovuto adottare misure decisive si è risolto in un nuovo fallimento. Russia e Cina hanno opposto il veto alla risoluzione sponsorizzata dal fronte occidentale anti-Assad che prevedeva, se l’esercito siriano non si fosse ritirato e non avesse cessato di usare le armi pesanti, nuove e più dure sanzioni contro il regime, inclusa
la minaccia di un intervento armato. Dunque, sarà il terreno a decidere vincitori e vinti «È stato come se, improvvisamente, fosse suonata la sirena che annuncia la catastrofe», racconta Nour, un giovane frequentatore di Internet che vive nella Città vecchia. «Via via che arrivavano le notizie dal quartier generale della Sicurezza interna, il traffico si è diradato. La gente è corsa a comprare tutto quello che poteva. In un paio d’ore le strade del centro erano deserte. Tutti in casa per cercare di capire, guardando
Al Jazeera e Al Arabya, le tv che il regime considera fra i suoi peggiori nemici, cosa sta succedendo nel Paese».
Ventiquattr’ore dopo l’attentato, il panorama della capitale non è cambiato. Le strade del centro, anche quelle risparmiate dagli scontri, sono vuote. Il cielo è attraversato dagli elicotteri da combattimento, mentre in lontananza si avvertono i rumori sinistri della battaglia. I ribelli si fanno sempre più audaci: a Qanawat è stato tentato l’assalto al quartier generale della polizia. Scontri sono avvenuti anche a Mezzeh, il quartiere dell’università , dei ministeri, del palazzo della televisione e delle multinazionali. L’anticamera elegante della città . L’esercito risponde. Fonti della rivolta denunciano che i carri armati sono entrati a Qabun: «Temiamo un massacro».
Un regime che non ha mai dialogato con i cittadini, se non per diktat o con messaggi propagandistici, sembra adesso puntare sulla paura. Così, durante le trasmissioni scorre nella parte bassa del teleschermo l’avvertimento rivolto agli abitanti di Tadamon,
Midan, Qar, Nabir Aisha, tutti quartieri centrali, a diffidare di uomini armati che vestono la divisa della Guardia repubblicana, l’unità di élite comandata da Maher al Assad, il fratello minore del presidente. Potrebbe trattarsi di “terroristi” sotto mentite spoglie, dice la tv. Ma che cos’è una guerra civile, se non l’impossibilità per i cittadini che non prendono parte allo scontro di distinguere fra le due schiere nemiche? Dopo la strage che ha dilaniato il vertice del regime, il problema per Assad, dicono gli esperti, è di ricostituire la catena di comando incarnata dal ministro della Difesa, Rajiha, dal cognato e viceministro della Difesa, Shawkat, e dallo stratega della repressione della rivolta, Turkmani. Ieri i siriani hanno visto alla tv il raìs che riceve il giuramento del nuovo ministro della Difesa, Freij. Era corsa voce che Assad non fosse a Damasco ma a Latakia, capitale della provincia a maggioranza alawita. Un’indiscrezione tendenziosa. Come dire che il raìs avrebbe deciso di rifugiarsi tra i fedelissimi alawiti. Poi è arrivato il filmato della tv, che tuttavia ha omesso di dire dove e quando si era svolta la cerimonia.
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