Microcantieri d’artista nel nome dell’ironia

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Il tema di questa seconda edizione è anzi proprio l’apertura internazionale di una comunità  che appare decisamente cosmopolita, grazie a Berlino, certo, ma non solo. Mancano pratiche politiche di contestazione e denuncia: la scelta curatoriale appare morbida e levigata, specie se confrontata con (poniamo) la recente Triennale di Berlino. Incontriamo opere note (è il caso dei Sipari di Ulla von Brandeburg, già  nella precedente Dokumenta e lo scorso anno alla Biennale di Lione. Vi si poteva forse rinunciare?), nuove produzioni e giovani artisti che si autorappresentano (sin troppo) come giovani artisti, con lavori ben fatti ma un po’ scolastici, da «fine corso». È una mostra infine che cade in un momento cruciale della costruzione europea, e si carica di importanza geopolitica, sia pure indiretta. Si intreccia al dibattito in corso, in Germania, sul patriottismo «buono» e «cattivo» e sulle insidie dell’autocompiacimento nazionalistico.
Teatri d’intenzione
Quali le linee-guida del team curatoriale? In primo luogo: una drammatizzazione concettuale o neo-concettuale della Forma e del Processo. Nelle sale al primo piano della Kestnergesellschaft spetta a Aron Levin, israeliano, inscenare un’interrogazione metafisica su Arte, Tempo, Storia, declinata a favore dell’impossibile sovratemporalità  dell’opera: un enorme dodecaedro in cemento poggia su un tavolo e due voluminosi tomi finzionali dal titolo Astrazione e immortalità , autore lo stesso Levin, lo sorreggono. A lato una costruzione instabile si spinge sino alla volta: monumento ironico a un acerbo prometeismo. 
Prevale, particolarmente tra i più giovani, l’orientamento a quello che potremmo chiamare scultura disarticolata, disseminata a terra e con occasionali incursioni a parete. Piccoli accrocchi instabili e provvisori configurano un percorso, una narrazione, un teatro di intenti evocato solo da tracce, indizi, segnavia. Accade come se si portassero in scena microcantieri individuali e studi d’artista, si rendesse pubblica la scena (indirettamente metafisica) di un fervore preliminare più interessato al processo che al risultato finale. Julia Schmidt espone prove di fotografie, assemblaggi di matite, squadre, blocchi di materia inerte, sagome di metallo, fugaci infatuazioni di pittura, pieghi e tagli di cartone, persino jeans e magliette: un autoritratto traslato in 3D. 
Le proposte più interessanti rinviano a un neo-dadacostruttivismo gradevole e precoce, deliberatamente sospeso tra «personale» e «politico»; a interni nordici con citazioni di strumenti del mestiere (da maneggiare senza ufficialità ; con cui giocare), birilli, dispositivi di misurazione, manichini. Sul pavimento giace (metaforicamente) il cadavere inerte del «capolavoro», dell’immagine dispiegata, pretenziosa, autosufficiente. Per i propri assemblaggi, Susanne M. Winterling adotta la forma del diario. Piccole fotografie studiatamente ingenue, una serie di piccole sculture dedicate a scrittrici come Weil, Bachmann, Arendt e un’installazione video cultuale e enigmatica. 
Alicja Kwade, polacca, lascia che decine di pesi cadano a terra dal soffitto di una sala, fissati a sottili catenelle. Nella sua installazione, dal titolo catartico Svolta nella vulnerabilità  (2011), paleostoria dell’io e costruzione mobile, eterodossa della Forma si congiungono. Gioca la carta dell’ironia Kathrin Sonntag, che propone ancora un omaggio a Morandi (dopo quello curatoriale di Dokumenta). Una diaproiezione mostra in sequenza gli innumerevoli tentativi di disporre oggetti di affezione sul tavolo dello studio, quasi ci si preparasse a dipingere (o fotografare) una Natura morta minuziosa e calcolata, «morandiana» appunto (Datene la colpa a Morandi, 2012).
Archivi e fantascienza
Sono Kitty Kraus (con poliedri in vetro irregolarmente illuminati dall’interno) e gli artisti espatriati a introdurre con maggiore acutezza i temi dell’interrogazione, lo smarrimento inventivo, la decifrazione dell’enigma. Mandla Reuter, sudafricana, presenta una micromonografica muovendosi tra differenti tecniche e linguaggi. Interroga contesti e dettagli architettonici quasi a esplorare le difficoltà  dell’«abitare». Marcellus L., brasiliano, avvicina il video come esercizio di messa a fuoco progressiva o investigazione metafisica: sembra muoversi nel punto di intersezione tra fantascienza e etnografia. In un video del 2004 un uomo attraversa un corso d’acqua nell’angolo perduto di una qualsiasi periferia rurale latinoamericana. Voci di donne e bambini fuori scena, canti di galli. Inquadrato a distanza, sovraesposto, l’uomo appare la scintillante creatura metallica di un futuro neo-feudale già  avviato. 2222 (2010) mostra l’immagine di un cavallo sullo sfondo di un declivio coperto di neve. Controluce e sonoro (il ritmato sgocciolamento della neve che si scioglie) contribuiscono a produrre un’immagine tra le più dislocanti, rari steli d’erba mossi dal vento, zolle nere taglienti e il respiro dell’animale che si condensa nell’aria raggelante e luminosa del primo mattino. 
Con La conferenza nascosta (2010) Rosa Barba stabilisce un paragone tra arte e storia dell’arte: l’una e l’altra discipline della curiosità  e dell’investigazione di documenti muti. Girato nei depositi del Museum fà¼r moderne und zeitgenà¶ssische Kunst di Berlino, il video propone la silenziosa conversazione tra opere non esposte e introduce punti di vista fantarcheologici. Brevi testi evocano visitatori giunti nel deposito dal futuro e ne prefigurano il potente allibimento. «Alcuni pensieri persistenti (delle opere d’arte) sono visibili e possono essere attraversati quasi come edifici, altri rimangono invece misteri di cui niente è dato sapere». Dissimulata vanitas contemporanea, La conferenza nascosta lambisce questioni inerenti competizione e mercato, sovraproduzione e collezionismo, abilità  e fama. L’americano Reynold Reynolds allestisce invece una complessa installazione attorno alle spoglie di un film sui vampiri girato al tempo della repubblica di Weimar, I perduti (2011-2012), ritrovato e restaurato: frammenti di girato (originale e non), oggetti d’epoca, disegni di sceneggiatura sono esposti come documenti d’archivio sopravvissuti alla censura nazista e alla fine dell’avanguardia tedesca entre-deux-guerres.
Ricerca sul campo
Simon Fujiwara stabilisce un’esplicita connessione tra arte e ricerca sul campo. Gli effetti personali di Theo Grà¼nberg (2010) è un’installazione complessa e a tratti ludicamente caotica, che simula l’archivio di un etnografo professionista (Theo Grà¼nberg appunto: mai esistito) e ne documenta l’attività . Ingegnosa biografia finzionale per immagini, l’installazione di Fujiwara mette assieme video dedicati alla regione amazzonica, fotografie etnografiche dei «popoli della foresta», volumi di consultazione, reperti, appunti, carte, documenti burocratici, casse di imballaggio. Sul tavolo di lavoro scorgiamo ancora gli occhiali dell’etnografo e una caraffa d’acqua semicolma: sembra quasi che Grà¼nberg sia appena uscito dalla stanza, e debba farvi ritorno. Il contesto professionale è ricostruito con meticolosità , come in un ritratto naturalista del secondo Ottocento o in una (pedante) installazione di Marc Dion: eppure qui e là  Fujiwara predispone indizi che svelano la finzione. Tra arte e ricerca, suggerisce, esistono affinità  e al tempo stesso profonde differenze: la prima è Responsabilità  e Referenza, la seconda è Gioco talvolta (e in modo archetipicamente puerile) congiunto a Rito. Potremmo dubitare della pacificità  della soluzione proposta. E immaginare prospettive che discutano criticamente l’equiparazione di «creatività » esperta e «fanciullezza», o dissolvano con audacia demarcazioni correnti. Quale che sia la nostra posizione in proposito, tuttavia, è certo che il binomio «arte e ricerca» attrae produttivamente formidabili inquietudini contemporanee.


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