Capitali in fuga verso Berlino da Madrid 70 miliardi ogni mese ma l’Italia ferma l’emorragia

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ROMA â€” Il rumore, dice qualche operatore, è quello di un gigantesco risucchio. In realtà , è l’area euro che si disgrega, ma il crepitio dei crac nell’edificio dell’unione monetaria è coperto dal suono del vortice di euro che lascia la Spagna per volare in Germania. La fuga riguarda tutti i paesi deboli, Italia compresa, ma, nelle ultime settimane, ha assunto un ritmo esasperato in Spagna. Secondo alcune stime, fra marzo e oggi, l’emorragia di euro che sta fiaccando Madrid, ha raggiunto i 70 miliardi di euro al mese. Gli analisti di una grande banca come Credit Suisse valutano che, se proseguisse per tutto il 2012 raggiungerebbe i 500 miliardi di euro, una cifra enorme, insostenibile, pari al 50% del Pil, cioè tutta la ricchezza prodotta in un anno dalla Spagna. In parte, è una ritirata in massa degli investitori stranieri, ma il dato più preoccupante, secondo Credit Suisse, è che, negli ultimi mesi anche gli spagnoli hanno cominciato a portare euro all’estero. Più in piccolo, ma le stesse cose stanno avvenendo anche in Italia, il
paese immediatamente dopo la Spagna, nella catena del contagio della crisi euro: da marzo, 47 miliardi di euro in titoli a medio e lungo termine, registra la Banca d’Italia, sono stati liquidati e sono svaniti oltre frontiera. In realtà , nelle ultime settimane, la situazione italiana si è stabilizzata e il deflusso di capitali, notano gli analisti della banca svizzera, è molto rallentato, mentre si avvitava la crisi spagnola. Ma le condizioni dell’Italia restano estremamente fragili.
Dove vanno gli euro spagnoli e italiani? La risposta è facile: in Germania. Gli economisti utilizzano attivi e passivi delle singole banche centrali del sistema euro, come indicatore dei movimenti di capitale e il risultato è inequivocabile. In particolare dallo scorso autunno, la Bundesbank ha accumulato un enorme attivo, a cui fanno, simmetricamente, da contraltare il boom dei passivi contabili della Banca di Spagna e di quella d’Italia, inarrestabile nel primo caso, per ora tamponato nel secondo. La conferma viene
dalla fotografia dei rapporti fra le banche dei singoli paesi e la Banca centrale europea. Le banche spagnole hanno preso in prestito 365 miliardi di euro dalla Bce, dove i loro depositi arrivano solo a 28 miliardi. Simile la situazione italiana: 281 miliardi di euro di prestiti e 12 miliardi in deposito. E le banche tedesche? 80 miliardi di euro di prestiti e ben 275 miliardi in deposito.
Per le regole contabili della Bce, depositi così alti non vogliono dire che i soldi non siano stati
prestati a famiglie o imprese, ma vogliono certamente dire che non sono stati prestati ad altre banche. à‰ forse il singolo elemento più preoccupante della crisi dell’euro: c’è chi parla di una nuova “cortina di ferro” venuta a dividere Nord e Sud dell’euro, dove le banche dei paesi forti non prestano più soldi alle banche dei paesi deboli. Mesi fa, le autorità  tedesche vietarono alla HypoVereinsbank di girare fondi alla sua controllante, l’italiana Unicredit, ritenuta poco affidabile. Un
intervento formalmente legittimo, visto che la vigilanza sulle banche è nazionale, ma che svuota di significato l’idea di un mercato finanziario unitario. Non è un’idea astratta. Detto in parole povere, la paralisi del mercato interbancario significa che i capitali fuggono, dall’Italia e dalla Spagna, verso la Germania e lì si fermano, senza tornare più indietro, sotto forma di prestiti bancari. E’ una distorsione in più, che deforma la struttura dell’area euro e che, a sua volta, genera,
con la corsa ai beni rifugio, la schizofrenica divaricazione fra i rendimenti dei titoli pubblici: negativi in Germania, Olanda, anche in Francia, insostenibili in Spagna e Italia. E, da qui, discende ancora lo spread più amaro e pesante di questi mesi, quello del costo del credito all’economia: “le migliori aziende italiane o spagnole hanno credito – notava la Reuters – a tassi molto più alti delle aziende tedesche peggio gestite”.
I rendimenti dei titoli pubblici nazionali sono, abitualmente, la base su cui si calcolano i tassi dei prestiti alle imprese. Il risultato della situazione attuale, nota il Credit Suisse, è che nei Paesi forti le aziende pagano sui prestiti circa il 3%, mentre, nei Paesi deboli, il tasso può superare il 6%. Ammesso che il credito, in questi paesi, ci sia. Negli ultimi mesi, il volume dei prestiti alle imprese è cresciuto del 3% nei Paesi forti e si è invece ridotto del 3% nei Paesi deboli. Difficile ipotizzare una loro ripresa in queste condizioni. Più facile pensare ad un ulteriore aggravamento degli squilibri. Negli ultimi dodici mesi, le vendite al dettaglio e gli investimenti
sono cresciuti, in Germania, Olanda e Finlandia, del 3% in Italia e in Spagna sono crollati del 10%.
La frattura dell’area euro si fa sempre più profonda, a marcare le differenze fra i due versanti di questa cortina di ferro virtuale. Di qua rendimenti negativi sui titoli del debito pubblico, di là  tassi ai massimi storici. Di qua credito economico e abbondante, di là  caro e introvabile. Il tutto, segnato da fughe massicce di capitali e da una paralisi dei rapporti fra le banche. Probabilmente, era questo il panorama che Mario Draghi aveva in testa quando, la scorsa settimana, ha sottolineato che “è difficile, oggi, condurre un’unica politica monetaria”. Forse, impossibile. Ma ricondurre Paesi forti e Paesi deboli dell’area euro dentro la stessa politica monetaria dovrebbe essere un compito statutario della Bce, che giustifichi anche l’utilizzo di strumenti eccezionali, come un intervento massiccio sui mercati del debito pubblico, finora sempre rifiutati.


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